Sottorappresentate, marginalizzate e aderenti allo standard maschile: è questa la narrazione prevalente di ragazze e le donne nei media. La situazione non migliora per le persone trans e non binarie: il riconoscimento delle loro esistenze stenta ad essere verbalizzato nella narrazione mediatica. Per non parlare poi della narrazione della violenza contro le donne. Un ultimo esempio in tv sono frasi pronunciate da una psicologa durante il programma Rai “Storie Italiane”, condotto da Eleonora Daniele, a commento delle immagini in diretta della seconda udienza del dibattimento di Filippo Turetta reo confesso del femminicidio di Giulia Cecchettin. Molte le polemiche per i commenti fatti in studio, che spostano l’attenzione dal carnefice alla vittima. Un classico caso di vittimizzazione secondaria.
La fotografia non è nuova, ma se ce ne fosse bisogno settimana scorsa è arrivata un’altra conferma da “(re)FUSE l’informazione verso il 25 Novembre”, un percorso di “avvicinamento narrativo” alla giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Organizzato dalla collettiva FactoryA e M.I.A.-Media Indipendenti Autodeterminatə – con GiULia (GIornaliste Unite LIbere Autonome) e Manifestolibri, all’interno del progetto “Poster oltre gli stereotipi” di Aidos – l’iniziativa ha chiamato all’appello giornaliste, conduttrici, studiose, scrittrici, economiste e attiviste per un obiettivo comune: ragionare insieme per cambiare la cultura della violenza e scardinare le gerarchie di potere nel mondo dell’informazione.
Una necessità condivisa e testimoniata dai dati: come indica l’indagine “L’immagine della Donna tra vecchi e nuovi media”, svolta da Ipsos in collaborazione con Consumers’ Forum, l’87% del campione coinvolto ritiene che i media abbiano il potere di creare narrazioni e alimentare (o abbattere) stereotipi. Il 58% ritiene che i media trattino le tematiche di genere in modo inadeguato. Potere, soldi, rappresentazione e leadership sono il filo rosso che unisce e influenza le narrazioni: tematiche interconnesse che, verso il 25 novembre, aprono la strada verso un nuovo paradigma dell’informazione che parta dal riconoscimento della differenza per ampliare spazi e abbattere stereotipi.
In Italia solo 3 donne sono direttrici di quotidiani
Per colmare il divario di genere nei media tradizionali, a livello mondiale, si stima che ci vorranno almeno altri 67 anni: a dirlo è il sesto rapporto del Global Media Monitoring Project. La presenza delle donne nei media in Italia è scarsissima: in una scala da -100 (solo uomini nei media) a +100 (solo donne nei media), il nostro Paese si attesta a un allarmante -49. I dati testimoniano i fatti: sono soltanto tre le donne direttrici responsabili di quotidiani (Agnese Pini, che dirige i quotidiani editi nel gruppo Monrif e che fanno capo alla testata Quotidiano Nazionale, ossia La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino; Stefania Aloia, che dirige Il Secolo XIX dal 1° ottobre 2023; Nunzia Vallini, direttrice responsabile del Giornale di Brescia) e nessuna alla direzione di un Tg.
«Esiste un’articolazione tra genere e potere, così come una distribuzione di genere nei ruoli» ha sottolineato Elisa Giomi, commissaria Agcom, durante il panel di (re)FUSƏ dedicato alle gerarchie di potere. Ma lo status quo, suggerisce Giomi, può essere invertito: «Portiamo le nostre soggettività nei media. Contaminiamole per rappresentare la società perché, se non ti vedi, non ci sei».
Vedersi significa sentirsi rappresentate. Ma è necessario che, a costruire immaginari e rappresentazioni, siano le stesse soggettività marginalizzate: invece, sottolinea Giomi, «È lo sguardo maschile che narra il femminile». Lo stesso che molto spesso “relega” le donne al trattamento dei cosiddetti “temi rosa” perché correlati alla cura, ancora considerata una prerogativa femminile. «Assistiamo a una persistente sottorappresentazione delle donne in posizione apicale. In tv le uniche tematiche in cui la presenza delle donne supera il 40% sono quelle sociali, di istruzione o cronaca rosa, in una perfetta replica dello stereotipo di genere in cui l’immagine del femminile è concepita solo come agente normativo o di riproduzione» evidenzia Giomi.
Se alle donne è la sfera della cura che viene affidata maggiormente (le donne italiane si fanno carico del 74% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza, stando ai dati del rapporto “Care work “and care jobs for the future of decent work” dell’International Labour Organization), gli uomini abitano lo spazio pubblico: troppo spesso, aggiunge Giomi, «I panel sono manel». Il riferimento della commissaria è ai programmi tutti al maschile in cui microfono e voce sono esclusiva degli uomini. Lo specchio di una realtà che fa ancora troppa fatica a cambiare.
Dove sono le donne comuni?
Non è “solo” nei numeri che si fa la differenza. Modificare lo squilibrio informativo sulle donne significa valorizzarne nella cronaca quotidiana le presenze politiche e sociali, sportive, culturali, scientifiche. Raccontare le donne come protagoniste – e non relegarle al ruolo di “vittime” – diventa strumento per ribaltare le gerarchie di potere.
«Nel giornalismo sono tante le professioniste che ogni giorno lavorano attivamente sulle politiche culturali e sui territori, sulle esperienze e sulle storie – sottolineano insieme le giornaliste e le esperte in dialogo -. Ma sulla stampa oggi sono rappresentate solo le donne di successo o le sopravvissute. Mancano le donne che incontriamo tutti i giorni. Quelle che non accedono agli asili nido, che sono precarie, che devono abortire, che pagano l’iva sugli assorbenti, che non hanno una sanità di genere, né indici paritari nelle scuole e nella formazione, che dipendono economicamente da uomini, che non stipulano un mutuo e troppo spesso non hanno neppure un conto in banca».
Anche quando il tema è la violenza di genere, le donne vengono descritte soprattutto come vittime senza lasciare spazio alla loro agency intesa come capacità di agire con consapevolezza, a partire dal loro vissuto, per promuovere il cambiamento sociale.
Come evidenzia l’Osservatorio Step “contro la violenza del linguaggio sulle donne”, gran parte della narrazione giornalistica, consolidando stereotipi sessisti e violenti, contribuisce a rendere la donna vittima tre volte: della violenza subita, della rappresentazione colpevole che di lei dà la stampa e non di rado l’ambito giudiziario, di una giustizia che troppo spesso viene depotenziata da questa narrazione distorta. Per cambiare linguaggio, serve riappropriarsene: «Vogliamo dire che noi donne ci siamo, insieme a tante altre soggettività considerate seconde – dicono le voci raccolte da (re)FUSƏ – Basterebbe leggerci di più, scriverne di più ma, soprattutto, sarebbe necessario usarne lo sguardo obliquo per raccontarne la quotidianità. E tessere reti».
Raccontare il mondo che cambia
Per riportare il quotidiano al centro serve recuperare un “vecchio” slogan femminista, attualissimo: il personale è politico. «Occorre mettere a frutto l’esperienza femminista nelle redazioni e in tutti i settori sociali» aggiunge Giomi, guardando alla genealogia di donne che ha lavorato prima e tracciando la rotta per il futuro: è in relazione, anche generazionale, che si emerge.
«Il femminismo è un luogo di conflitto e, la pratica del conflitto, presuppone un riconoscimento reciproco. È necessario stare nella complessità» afferma Roberta Paoletti di DWF, storica rivista femminista dal 1975. Oggi come ieri, portare i femminismi in redazione significa raccontare il modo considerando diversi vissuti e pratiche.
I temi Lgbtq+ assenti dai tg
Nell’informazione televisiva italiana l’incidenza delle notizie riguardanti almeno una diversity è del 35,5%, con un importante aumento rispetto al 2022 ma con notevoli differenze tra le aree: a riportarlo è il Diversity Media Report 2024 (DMR), la ricerca annuale sulla rappresentazione delle diversità nei media italiani di informazione e intrattenimento, condotta da Fondazione Diversity . Cresce l’incidenza di notizie riguardanti etnie e questioni razziali, genere identità di genere, età e generazioni, che sono anche le aree più affrontate nei Tg (con una copertura, rispettivamente, del 20,1%, 12,7% e del 12% sul totale notizie), mentre c’è una preoccupante staticità nelle aree disabilità – ferma ad un 1,3% – e nei temi Lgbtq+ o legati all’aspetto fisico che hanno una copertura vicina allo zero (0,5%, 0,4%).
La diversità non è un limite, ma un allargamento di orizzonti. Serve presidiarli e allargarli a partire dal linguaggio, la cui evoluzione si muove in ottica intersezionale: sviluppando questo termine, nel 1989 la giurista Kimberlé Crenshaw voleva far capire come la discriminazione di genere e quella di razza non fossero due binari paralleli che non si incontrano mai. Ma categorie che possono incontrarsi. Il potere del termine di rendere visibili i molteplici strati di oppressione possibili (di genere, razza ma anche di classe, orientamento sessuale, disabilità e religione), portandoli al centro del dibattito, ha cambiato il modo in cui oggi si parla di violenza di genere e di femminismo.
Non aver timore che la lingua cambi, a beneficio della soggettività che non si riconoscono nel binarismo uomo-donna, «Non significa oscurare le donne» – come specifica la giornalista Angela Azzaro – «Ma andare oltre l’uno (maschile) e il due (femminile)». La cancellazione del femminile non può trovare equilibrio o parità nella cancellazione di soggettività altre. Il rischio sarebbe quella di perpetrare la stessa rimozione subita: «Mettere in parola quello che accade», dicono le esperte riprendendo le argomentazioni della filosofa femminista Carla Lonzi, significa agire e farsi agenti di cambiamento «in un ambito allargato anche alle tematiche LGBT+ e, più in generale, agli studi che indagano il rapporto fra media, identità, ruoli e relazioni di genere, diversità e inclusione in una prospettiva intersezionale». Non essere sempre d’accordo, ribadiscono giornaliste ed esperte su più posizioni, è la base per evolvere: stare nel conflitto significa promuovere il cambiamento, nelle sue complessità.
Le signore parlano di soldi
Se quello che c’è da fare per cambiare le narrazioni è chiaro, lo sono altrettanto le modalità: servono soldi e, soprattutto, è necessario avere donne capaci di richiederli, gestirli, padroneggiarli, investirli. Moltiplicarli. Rompere il tabù per cui le donne non parlano e non si interessano di soldi è un cambiamento culturale che agisce direttamente sulla prevenzione della violenza: il 49% delle donne intervistate da Ipsos e WeWorld nel report “Ciò che è tuo è mio. Fare i conti con la violenza economica” dichiara di aver subito violenza economica almeno una volta nella vita. La percentuale sale al 67% tra le donne divorziate o separate.
«Il controllo delle donne sul proprio denaro ha un impatto diretto sulla loro sfera privata» spiega ad Alley Oop Azzurra Rinaldi, economista femminista e direttrice della School Gender Economics Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, che aggiunge: «Avere potere sui propri soldi significa avere potere contrattuale all’interno della coppia. Oltre a questo, significa aprire un ventaglio di possibilità di crescita individuale, professionale e imprenditoriale che aumenta la voce delle donne anche a livello collettivo. Vedere più donne occupare più spazio, più posizioni, con più opportunità di formazione. Questo fa bene anche alla natalità: quando il tasso d’occupazione femminile è più alto anche il tasso di natalità lo è».
Se le istituzioni non sono supportive – «Le prime bozze della legge di bilancio ci dicono che anche quest’anno il tema non è che i soldi non ci sono. Ma dove si sceglie di metterli», afferma Rinaldi – occorre fare da sé: l’informazione mainstream, soprattutto nei ruoli apicali, resta nelle mani degli uomini. Così come sessuate sono le fonti di finanziamento. Nel frattempo, il panorama delle testate femministe indipendenti, è vivacissimo. Ma autoprodotto e con scarsa visibilità. Per questo, imparare a parlare e gestire i soldi, acquisisce un ulteriore significato: «Parlare di soldi è un atto semplice ma rivoluzionario – conclude Rinaldi – Perché ci consente di abitare una costruzione di futuro che, invece, ci è sempre stato fatto pensare non fosse per noi». Essere impreviste e “refusə”: così spazi “inaspettati” diventano “abitati” e decostruiscono il potere. A partire dalle parole che, il 25 novembre e non solo, hanno la responsabilità di cambiare la cultura.
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