Gianna Martinengo: “La tecnologia ha bisogno delle ragazze”

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Il lavoro è un diritto, ma che succede se il futuro dell’occupazione si sta muovendo in una direzione da cui resta esclusa una grossa fetta della popolazione? Se l’avvenire è nel digitale e nella tecnologia, quali sbocchi professionali avranno tutti coloro e tutte coloro che non hanno accesso alla formazione Stem, a Internet, persino a un device adeguato durante gli anni scolastici? Che possibilità hanno i giovani, ma soprattutto le giovani, di prepararsi per i lavori di domani in tutte le aree del Paese?

Sono domande che ci poniamo da tempo, ma a cui non abbiamo evidentemente dato una risposta efficace, se ancora oggi solo il 22% delle studentesse universitarie sceglie le materie Stem. Vero è che il 2021 ha registrato un aumento del 15,74% delle immatricolazioni in informatica e tecnologie Ict, ma le materie scientifiche, secondo una diffusa percezione distorta, allontanano le ragazze.

Non siamo un Paese digitale

C’è ancora molto impegno da mettere in campo, quindi, per incentivare la partecipazione femminile al settore scientifico, e se è vero che, secondo la Costituzione, l’Italia “promuove le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro”, allora questi impegni bisogna realizzarli con urgenza. Si è detto più volte che gli investimenti del Pnnr rappresentano un’occasione unica per un cambio di marcia, che l’uguaglianza di genere, anche nella scienza, è cruciale, che le donne vanno incoraggiate e valorizzate a portare la propria leadership nel mondo scientifico-tecnologico come agenti di cambiamento. Che cos’è allora che ancora ci tiene a freno?

La diversità si valorizza includendo tutti coloro che possono dare un contributo e un punto di vista”, afferma Gianna Martinengo, ideatrice nel 1999 del progetto internazionale “Women&Technologies”, e del Premio “Le Tecnovisionarie”, che dal 2007 premia il talento e l’ingegno femminile. E continua: “Manca nel nostro Paese una cultura digitale. In questa confusione in cui le parole perdono significato, non c’è una divulgazione abbastanza efficace che spieghi, per esempio, che l’AI è il collante tra scienze del computer e scienze cognitive. Ciò farebbe comprendere perché anche la formazione umanistica è così importante”.

Uno degli obiettivi di W&T con le giovani ambassador è quello di trasmettere loro la consapevolezza del gap di genere, perché molto spesso non è presente, spiega Martinengo: “Ragazze brillantissime, dai 20 ai 32 anni, studentesse o dottorande, che non hanno mai sentito parlare di democrazia paritaria“. Se non nomini un problema, non per questo quel problema non esiste. È solo più difficile risolverlo. E qual è allora un modo per intervenire a portare le ragazze nelle professioni tecnologico/digitali? Quale il facilitatore da valorizzare? “Dobbiamo distinguere tra uso delle tecnologie e sviluppo: se non vogliamo che il nostro Paese diventi soltanto un mercato di prodotti sviluppati da altri, dobbiamo investire sulla partecipazione nello sviluppo, sulle persone, in particolare sulle donne, per la loro visione olistica delle tecnologie” prosegue Martinengo. 

Consapevole che purtroppo è proprio l’Ict che presenta una percentuale ancora troppo bassa di donne, spiega altresì che partecipare allo sviluppo tecnologico non vuol dire necessariamente studiare ingegneria o simili: “Nel 2013 siamo stati tra i primi a mettere la A nelle Steam (Science, Technology, Engineering, Arts e Mathematics) non per vezzo, ma per indicare la assoluta indispensabilità delle competenze umanistiche, sociali, economiche, finanziarie nei mestieri Stem. Moltissimi ragazzi e ragazze quando escono dai politecnici fanno fatica a interfacciarsi con gli esperti di altre discipline. Nel 1983 uscivano dalle facoltà di Ingegneria o di Scienza dell’Informazione con l’idea di gestire i sistemi informativi, ma la nostra mission già allora era ‘dialogo e interazione tra persone mediato da tecnologie’; solo per spiegare la mission occorreva un convegno. La preparazione tecnica non è sufficiente, le materie umanistiche possono collaborare con quelle tecniche, ma bisogna avere una visione sistemica. Cito spesso Peter A. Wegner che sosteneva che l’interazione è più potente dell’algoritmo”.

Che prospettive diamo ai giovani?

E in che modo si può fornire ai giovani questa visione? La risposta, ancora una volta, ovviamente, è nel sistema dell’istruzione. E qui occorre fare un inciso: il lavoro di Martinengo è cominciato con lo studio dei meccanismi di apprendimento dei bambini con difficoltà.

A 26 anni, Martinengo era laureata in lingue, sposata, con due figli, e aveva scelto l’insegnamento, secondo la tradizione che vedeva questa professione come la più funzionale per le donne, per via della conciliazione. Intorno a lei avvenivano le rivoluzioni sociali degli anni Settanta, ma alle tematiche sollevate dai movimenti femministi lei arriva senza ideologia, attraverso un percorso che la porta prima negli Stati Uniti come ricercatrice a Stanford, e poi a fondare nel 1983 Didael, la prima “Web knowledge company” italiana, dove attualmente ricopre la carica di presidente.

Di questi passaggi racconta: “Mi piaceva molto insegnare. Dopo la laurea mi sono specializzata all’Università Cattolica in Scienza dell’Educazione con particolare attenzione alle teorie dell’apprendimento, degli adulti e dei bambini con difficoltà di apprendimento”. È così che, quasi per caso, decide di partecipare a un bando dell’Istituto di Matematica delle Scienze Sociali di Stanford, in cui cercavano persone con le sue competenze. “Ricordo che già nel 1982 a Stanford usavamo una rete informatica (Arpanet) per lavorare (il mio capo di allora viveva in Arizona), anche se lo smart working per molti è stata la grande scoperta della pandemia. All’epoca in Italia avevamo a disposizione solo l’M20 della Olivetti, quindi hardware e software poverissimi di funzionalità, se confrontati con quelli di oggi, e compensavamo con molto brainware e la capacità di lavorare in gruppo”.

Questa esperienza la porta a comprendere le potenzialità dell’e-learning, e a immaginare, proprio come una tecnovisionaria, i suoi possibili sviluppi futuri: “A Stanford avevo iniziato a progettare un corso di italiano base per i bambini con difficoltà, avevo scoperto la funzione diagnostica di certi strumenti. Lavorai al Don Gnocchi di Milano per mettere a punto il prodotto e fu Giorgio Sacerdoti, allora presidente dell’Aica (Associazione italiana per l’informatica ed il calcolo automatico), a riconoscere la sostanziale differenza tra l’editoria elettronica e il nostro prodotto”.

martinengoEbbene, questo punto di partenza, l’attenzione verso le specifiche modalità di apprendimento dei bambini, è lo stesso di un’altra grande innovatrice italiana, Maria Montessori. A dimostrazione che, talvolta, proprio concentrandosi sull’insegnamento e sui bambini si riesce a immaginare e disegnare un futuro impensato.

Con Montessori, a quanto pare, Martinengo condivide anche una certa capacità di guardare i bambini e i giovani in modo molto diverso dal sistema scolastico basato su meriti e performance: “Se vedo imparo, se faccio capisco”, riassume così i processi di apprendimento dei bambini, e continua: “Con la robotica educativa i bambini imparano a programmare con strumenti ovviamente diversi dai laboratori adulti, ma il principio è sempre di programmazione robotica. Nella scuola media manca totalmente l’orientamento, un processo che dovrebbe essere istituzionalizzato e non lo è. Nelle università bisognerebbe fare più innovazione: negli ultimi 5-6 anni siamo arrivati a 600 corsi di Psicologia, Sociologia, Scienze Politiche e Giurisprudenza e abbiamo 30 corsi in Italia di Cybersecurity e Data science. Non c’è un approccio innovativo, per tante ragioni che non sono solo da attribuire come colpa alle università: c’è una scarsa visione globale sulla modernizzazione della Pubblica amministrazione, istruzione inclusa”.

L’impegno per valorizzare le donne

Il problema è dunque duplice: da una parte è assente una valorizzazione consapevole della tecnologia come facilitatore per il progresso, dall’altra manca l’apertura e il coinvolgimento nella materia di studio. E questo vale tanto più per le donne: si pensi a cosa potrebbero fare le tecnologie in un’ottica di conciliazione, e a come potrebbero facilitare la loro partecipazione al mercato del lavoro in entrambi i contesti.

È sulla base di questa doppia intuizione che Martinengo ha scelto a un certo punto di dedicarsi con continuità al sostegno delle donne: “Alla fine degli anni Novanta ho lavorato nel primo progetto sulle competenze voluto dal ministero del Lavoro e in quel contesto nacque la prima classificazione tra competenze di base, tecnico/professionali e trasversali. All’epoca era diffuso il concetto di competenze innate, per esempio si consideravano innate nelle donne le capacità di mediazione, di resistere agli stress, una visione di leadership circolare e non finalizzata solo agli obiettivi. In quegli anni erano soprattutto psicologi e sociologi a occuparsi di tale materia; con l’avvento delle neuroscienze è stato dimostrato che le competenze relazionali delle donne sono effettivamente diverse da quelle degli uomini”.

Oggi gli studi hanno portato nuove consapevolezze, si è compresa la solidità dei costrutti culturali nel determinare l’acquisizione di certe competenze piuttosto che altre, ci si è spinti ad affermare con forza che è proprio sulla cultura che bisogna agire per spingere verso il cambiamento. Niente di più impalpabile e difficile. Eppure sono proprio storie come quella di Gianna Martinengo a diventare esempio concreto di come certi percorsi possano essere interrotti, deviati, spinti in avanti, al di là di ogni mappa già tracciata.

Sono umanista di formazione e tecnologa per scelta”, dice di sé stessa. Se vogliamo dunque che allo stesso modo e con la stessa libertà sempre più ragazze scelgano le strade Stem, dobbiamo abbattere le barriere che ancora limitano i percorsi. Ci sono molte sfide aperte, quando si parla di innovazione digitale in Italia, di istruzione, di occupazione femminile e giovanile. E molte di queste sfide sono in mano alle istituzioni. D’altra parte, come ama affermare Martinengo: “Il potere dovrebbe essere un servizio”.

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