
Due anni fa, poco dopo il ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, un presidio spontaneo di studenti si stringeva davanti all’ingresso della città universitaria, sede centrale della Sapienza Università di Roma, chiedendo ascolto e giustizia alle istituzioni. È successo ancora, ad aprile scorso, per il femminicidio di Ilaria Sula che, in quelle stesse aule, portava avanti i suoi studi in statistica. È successo tutte le volte che un’altra collega, compagna di corso, amica, sorella e conoscente è stata vittima della violenza maschile contro le donne: le ragazze si sono incontrate nelle università per abbracciarsi, protestare, manifestare. Dire a voce alta che non basta una giornata: serve prevenire la violenza, soprattutto nei luoghi della formazione.
Il ciclo di incontri “Una giornata non basta. Sapienza contro la violenza di genere”, proposto dalla Sapienza per tutto il mese di novembre, risponde muovendosi in questa direzione. «È nelle università, luoghi di formazione, che nasce la possibilità di un cambiamento reale – sottolinea la rettrice Antonella Polimeni – Bisogna riconoscere che ogni sapere porta con sé una responsabilità sociale: la violenza si combatte attraverso la conoscenza». Ed è proprio dalla cultura che parte il secondo evento del ciclo, “Verso una cultura del rispetto e della non-violenza: tra formazione e rappresentazioni sociali”, mettendo in relazione voci, esperienze, testimonianze e saperi: nell’Aula Magna del Rettorato, insieme a 750 studenti, si è inaugurato quello che la rettrice Polimeni ha definito «un percorso, non un traguardo» verso la cultura del rispetto. Insieme a lei, la delegata alle Pari opportunità Anna Maria Giannini. Un impegno congiunto, quello sulla prevenzione della violenza maschile contro le donne, che nel movimento e nell’azione ha la sua essenza: «Una nuova cultura si costruisce con le relazioni, la cura, la scelta delle parole – afferma la rettrice -. E anche negli errori». Una giornata non basta. Ma serve iniziare.
Rifondare i saperi, cambiare la cultura
Per far sì che la «cultura del rispetto» germogli e si consolidi, è necessario ricostruire le fondamenta e mettere in discussione il sapere finora acquisito, a partire dai luoghi del sapere che hanno legittimato la sopraffazione maschile. «Il patriarcato ha giustificato l’esercizio della violenza per mantenere un ordine simbolico e i saperi si sono formati intorno a questo assunto» afferma Fabrizia Giuliani, coordinatrice del Comitato tecnico scientifico dell’Osservatorio nazionale contro la violenza sulle donne che ha redatto il Libro bianco per la formazione contro la violenza sulle donne. Rifondare i saperi, sottolinea la filosofa del linguaggio, è un tassello fondamentale per nominare la violenza e farla esistere, demolendo ogni tentativo messo in atto per normalizzarla o renderla invisibile.
«Il migliore pensiero femminista ha mostrato l’inconsistenza della neutralità dei saperi, usata per coprire storie di oppressione e di violenza», ricorda Giuliani. E, rivolgendosi ai colleghi docenti, aggiunge: «Dobbiamo fare ancora un passo: rifondare i nostri saperi. Senza cancellare le responsabilità di chi ha voluto che la violenza non fosse nominata, ma trovando finalmente le parole per raccontarla. Il dolore va raccontato».
La violenza sulle donne, il “sommerso” della storiografia
Un impegno che dev’essere sinergico e deve coinvolgere anche gli uomini, “tutelati” dalla storiografia maschile: «Il tema della violenza di genere è stato sommerso nella storiografia perché fa parte della storia di coloro che non sono i vincitori, i maschi ricchi dell’Occidente, ma i vinti» ricorda lo storico Umberto Gentiloni Silveri. La battaglia non può continuare a essere a carico esclusivo delle donne, soprattutto perché la responsabilità è maschile: «Le donne, mettendo in discussione il codice Zanardelli e il codice Rocco, hanno messo in discussione la storiografia» spiega lo storico che, agli uomini, dice: «Cambiare le cose è un percorso difficile perché mette in discussione relazioni, poteri e contraddizioni che attraversano la nostra società. Quello che riusciamo a fare durante il cammino è fondamentale».
Il ruolo dei centri antiviolenza nella rinascita delle donne
Così come fondamentale, in questo cammino collettivo, rimane il ruolo dei centri antiviolenza: non solo nel supporto concreto alle donne vittime di violenza, ma anche nel cambiamento della cultura. Non è la vittima ad avere la responsabilità o la colpa della violenza subita, mai: le parole giuste servono a far passare chiaramente il messaggio e abbattere gli stereotipi, compresi quelli interiorizzati dalle stesse donne che, spesso, si sentono responsabili. «La prima cosa che viene detta a una donna che chiede aiuto e accompagnamento è “Non sei tu sbagliata. Quello che tu mi stai raccontando mi appartiene in quanto donna”» spiega Lella Palladino, vicepresidente della Fondazione Una nessuna centomila: un primo ma fondamentale contatto che «ristabilisce immediatamente non solo la capacità di fiducia rispetto al mondo. Ma anche la possibilità di uscire dalla spirale della violenza e trovare la speranza». Un’opportunità storicamente negata e resa invisibile alle donne perché, conclude Palladino, «Non ci rendiamo conto che siamo all’interno di un contesto culturale che normalizza la violenza nella quotidianità: è così capillare che non la vediamo».
«Il diritto non è neutro», i pregiudizi sessisti dentro e fuori le aule di giustizia
Cambiare la cultura significa non solo dare vita a un nuovo linguaggio e scardinare le consuetudini acquisite nella vita quotidiana. Ma anche depurare la giustizia dagli stereotipi che la danneggiano, rendendola meno giusta. «L’aula di giustizia e le sentenze che scriviamo sono il frutto del sapere e dei pregiudizi sessisti che abitano il nostro Paese», sottolinea Paola Di Nicola Travaglini, giudice della Cassazione e componente con Giuliani, Palladino, Vittoria Doretti e Claudia Segre del Cts dell’Osservatorio antiviolenza. La magistrata aggiunge: «Questo non è un alibi. Abbiamo bisogno che i luoghi della formazione depurino i saperi e il linguaggio, raccontando la sistematica violenza contro le donne nelle sue radici culturali».
Come nel linguaggio, anche nella giustizia non si può parlare di neutralità. «Il diritto non è neutro. La neutralità non esiste, come l’imparzialità», afferma la giudice. «Non possiamo essere imparziali perché apparteniamo a una storia e a una cultura che forma le nostre valutazioni». Per questo motivo, è indispensabile la formazione dei magistrati, insieme con quella di forze dell’ordine, operatori sanitari e dell’informazione: il Libro bianco muove proprio dalla consapevolezza che il primo passo per contrastare la violenza è saperla riconoscere. Occorre trovare e parlare un linguaggio comune che sia capace di vedere le responsabilità.
«Parole come femminicidio, odio, discriminazione e limitazione della libertà femminile devono entrare nel lessico giuridico, che non è neutro», ribadisce Di Nicola Travaglini, sottolineando: «I pregiudizi giudiziari esistono perché i giudici non sono imparziali. Nei casi di violenza contro le donne e nel diritto di famiglia applicano spesso i pregiudizi che troviamo anche fuori dall’aula, ovvero: le donne mentono, esagerano, provocano, se la sono cercata». Cambiare la cultura serve a fare in modo che le buone pratiche non restino casi isolati: «La lotta è complessa ma possiamo farcela», afferma Francesco Menditto, già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli. «Con il raddoppio delle denunce e il 90% di condanne, la Procura di Tivoli ci dà la soddisfazione di dirlo e dimostrarlo». E, rivolgendosi ai ragazzi in aula, raccomanda: «È il momento di fare la nostra parte».
Le responsabilità delle narrazioni: Step e gli «anticorpi a tutela dei diritti»
«I codici sono sessuati e, a dispetto di chi li considera neutri e astratti, dobbiamo avere gli anticorpi pronti ad attivarsi per tenere vivi i diritti». Così Manuela Perrone, giornalista del Sole 24 Ore e co-coordinatrice di Alley Oop, mette a fuoco un’altra faccia della violenza: la vittimizzazione secondaria che le donne subiscono nel racconto distorto che, ancora troppo spesso, stampa e media fanno della violenza maschile contro le donne.
I dati dell’Osservatorio Step, illustrati dalla presidente dell’Osservatorio Flaminia Saccà, lo confermano. Dai 3.671 articoli analizzati, su 25 testate nazionali, emerge che nel linguaggio della stampa qualcosa lentamente migliora: il termine “raptus”, ad esempio, appare sempre meno sui giornali. Ma continua a esserci troppa himpathy: l’empatia nei confronti del femminicida invece che della vittima. Frutto, ancora una volta, degli stereotipi che albergano in ciascuno e ciascuna di noi.
Il racconto degli ultimi casi di femminicidio non fa eccezione, proponendo profili stereotipati delle vittime. «Per i primi due giorni dal femminicidio di Pamela Genini abbiamo letto soltanto delle sue borse firmate, dei suoi viaggi e abbiamo visto soltanto le sue foto in posa, in passerella, con il suo cane, sorridente davanti a paesaggi mozzafiato in vacanza» ricorda Perrone, domandando: «Io la chiamo mancanza di rispetto, voi come la chiamate?». Queste narrazioni, che trascurano il fatto – una donna barbaramente uccisa per mano di un’uomo – scavando morbosamente nella vita della vittima, rientrano in un contesto preciso che Perrone individua «in quell’humus culturale incapace di riconoscere le donne come soggetto autonomo e dotato di diritti» e che instilla il pensiero più orrendo: “Se la sarà andata a cercare”. Un contesto che prepara l’himpathy verso il carnefice, quasi invitandolo a “comprenderlo” prima ancora di conoscerlo. Anche se poi si rivelerà incomprensibile. Nel caso di Genini, abbiamo scoperto soltanto in seguito la verità: viveva nella paura, tra le minacce.
Le derive della pornografia del dolore e della spettacolarizzazione
Le parole demoliscono, ma possono anche riabilitare. «Tenere allenati gli anticorpi», come afferma la giornalista, serve a scrivere in modo corretto e a consolidare l’utilizzo di un linguaggio che metta al centro il rispetto delle donne nel racconto. Lo chiede il Manifesto di Venezia – «Un documento fondamentale che indica in dieci punti cosa si deve fare e non fare quando si parla di violenza contro le donne» ricorda la giornalista – e l’articolo 13 del nuovo Codice deontologico dei giornalisti e delle giornaliste, dedicato al rispetto delle differenze di genere. Il giornalismo non è l’unico campo dove le distorsioni narrative trovano terreno fertile. «Mi vengono in mente tanti contenitori di infotainment televisivo che parlano di cronaca nera in cui il fatto viene personalizzato e drammatizzato», ricorda la sociologa Paola Panarese, direttrice del corso di laurea in “Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione”. Per abbattere i pregiudizi, sostiene la sociologa, è invece necessario «un approccio multidisciplinare»: la pornografia del dolore e la spettacolarizzazione non semplificano la comprensione della violenza. Ma la banalizzano. Un rischio che, come dimostrano all’unisono le voci dalla Sapienza, non si può più percorrere.
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