Femminicidi giovanili: gli assassini, quel vuoto che fa paura e il bisogno di relazioni nuove

Ilaria Sula, studentessa, aveva 22 anni. Il suo assassino Mark Samson, anche lui studente, ne ha 23. Sara Campanella, studentessa, anche lei aveva 22 anni. L’assassino che l’ha uccisa si chiama Stefano Argentino e ha 26 anni. Le due vittime di femminicidio, due in pochi giorni, avevano la stessa età di Giulia Cecchettin: aveva 22 anni, quando nel novembre del 2023 Filippo Turetta (stessa età) l’ha uccisa. Poco più grande era Giulia Tramontano, stava per compiere 30 anni quando la sua vita e quella del bambino che portava dentro di sé da sette mesi, sono state ferocemente cancellate da Alessandro Impagnatiello, 30 anni anche lui.

Ragazze che non vedranno l’età adulta, non potranno realizzare i progetti per cui erano impegnate, avere le vite che stavano costruendo. Ilaria Sula studiava Scienze Statistiche all’Università La Sapienza, terzo anno, era originaria di Terni e viveva a Roma con 4 coinquiline. Sara Campanella, uccisa a Messina, frequentava il corso di Tecniche di laboratorio biomedico e doveva laurearsi a breve. Per Giulia Cecchettin, la data della laurea in Ingegneria biomedica all’Università di Padova era fissata: la discussione della sua tesi doveva essere il 16 novembre 2023. È stata uccisa l’11 novembre, la laurea l’ha ricevuta post mortem, il 2 febbraio del 2024. Giulia Tramontano lavorava già, come agente immobiliare, si era trasferita dal suo paese in provincia di Napoli a Senago, in Lombardia e aspettava un bambino dal suo assassino, lo avrebbe chiamato Thiago.

Vite che non sono potute essere, vite giovanissime strappate alle loro famiglie e al futuro, che ci fanno interrogare proprio sulla giovane, giovanissima età delle vittime e dei loro assassini: poco più di 20 anni. Dall’altra parte, dalla parte degli assassini, vediamo ragazzi all’apparenza senza evidenti problemi, che però compiono atti efferati e di una violenza difficile anche da raccontare, che cercano di nascondere le tracce, che chiedono aiuto per sfuggire alla giustizia e che sembrano non avere nessuna empatia nei confronti della vittima, nessuna consapevolezza del profondo disvalore di quanto fatto. Un po’ come succede nella serie Adolescence, dove il ragazzino deve fare tutto un percorso psicologico prima di riuscire a iniziare a prendere consapevolezza del reato commesso e del dolore arrecato.

Le radici della violenza giovanile e i retaggi del patriarcato

In tutto questo, visto che a commettere i reati sono i maschi, in genere rifiutati dalle ragazze, la cultura patriarcale in cui tutte e tutti viviamo e cresciamo, più o meno elaborata, più o meno portata a consapevolezza per essere superata, fa certamente la sua parte. Con il numero delle donne uccise in una relazione affettiva (presente o passata o anche solo desiderata) continua a essere enormemente più grande di quello degli uomini uccisi in una situazione analoga.

Ma non basta, perché i femminicidi commessi in età così giovane presentano delle caratteristiche peculiari, che li differenziano dalle uccisioni delle donne di età più adulta ed è anche su questo che bisogna puntare perché orrori del genere non accadano più. Volgendo lo sguardo su chi commette questi orrori: perché se è vero che alle ragazze bisogna insegnare a riconoscere i segnali, a mettersi in salvo, a tutelarsi, è ai maschi che bisogna guardare perché sono loro a uccidere. «È chiaro che – dice Marco Deriu, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’università di Parma – proveniamo da una cultura e da una società patriarcale che si riflette in molti aspetti dell’organizzazione sociale».

Tuttavia, prosegue, «se da una parte sono cambiate molte strutture sociali e si sono fatti importanti passi avanti, con la presenza sempre più forte delle donne agli studi superiori, una ridiscussione dei modelli di genere e una pluralizzazione delle soggettività, l’ampliamento dei modelli relazionali e famigliari, una maggiore autonomia economica, dall’altra percepiamo sempre più chiaramente che le innovazioni giuridiche, strutturali e culturali, non si sono tradotte automaticamente in modelli relazionali rispettosi e non violenti». Se in passato le strutture sociali e familiari supportavano e davano una posizione di forza o di privilegio agli uomini «oggi il passaggio a modelli relazionali più liberi e paritari risponde ad un’aspettativa culturale ma non è supportato da un processo culturale e sociale condiviso che educhi e accompagni non solo i giovani, ma l’intera società in una rivoluzione delle relazioni».

Mancanza di empatia, come un vuoto di umanità

Premesso questo, occorre conoscere meglio  chi abbiamo davanti, chi sono i giovani violenti. «Sono giovani che hanno perso ogni punto di riferimento. I più fragili si svuotano dentro, sono veramente delle mine vaganti come mai è stato prima», riflette Sarantis Thanopulos, presidente fino della Società psicoanalitica italiana fino al marzo scorso. Un vuoto che fa paura, vuoto di emozioni, di empatia, quasi fosse un vuoto di umanità, leggendo le cronache delle ore successive ai femminicidi, di come sono stati ideati e organizzati e inscenati. Cosa resta, oltre a questo vuoto? «Un rapporto adesivo con la realtà – dice Thanopulos – la parte della soggettività che sopravvive si aggrappa disperatamente alla donna con molta, moltissima ambivalenza e quando la donna si sottrae la parte vuota diventa la morte. Agiscono con una determinazione inaudita, ma non sanno quello che fanno e non riescono a dare una ragione, neanche delirante».

Ragazzi chiusi che hanno paura di deludere

Il malessere de ragazzi emerge anche nelle scuole. Malessere accentuato da un insano rapporto con social e Internet che spesso porta questi giovani a un uso e abuso del digitale, attraverso scambio di video e foto intimi, attraverso la frequentazione di chat e gruppi social misogini e incattivi. Virginia Ciaravolo è psicoterapeuta-criminologa e autrice di “Femminicidi giovanili senza scampo. La storia di Michelle Causo, la ragazza ritrovata in un carrello”: «Dal mio osservatorio – racconta – c’è un disagio giovanile che parte da un problema che è alla base. I giovani sono arrabbiati, manca loro un canale dover far scorrere aggressività. Sembra che accumulino polvere da sparo, poi scoppiano basta un no, basta che il ragazzo trova il cellulare della ragazza con i messaggi con altro ragazzo. Lo leggo come disagio che viene da una serie di motivazioni, non per ultimo da enormi frustrazioni, disagi familairi, sociali, chiusure interiori, disagi psicologici non visti e non decodificati. Non sto parlando di disturbi psichiatrici, un passaporto non lo do a nessuno. Ma  questi ragazzi sono anaffettivi, freddi, gelidi, privi di sensibilità, egoisti».

I ragazzi,  dice Carmela Perrone, insegnante alla scuola media romana Duca D’Aosta, «spesso non sanno di cosa hanno bisogno, non si interrogano davvero perché noi adulti proponiamo loro sempre qualcosa a cui adeguarsi;a volte non ci rendiamo conto delle aspettative che proiettiamo su di loro e inevitabilmente si appiattiscono sui desideri degli altri e non sui propri bisogni. C’è la paura di deludere gli adulti e per questo, a volte, gli adolescenti si chiudono, non raccontano come stanno, perché non vogliono creare preoccupazioni che attirerebbero di più il controllo ansioso dei genitori. Un ruolo ancora più importante è dato dalla società in cui vivono dominato dai social; le nuove generazioni tendono ad affidare sempre di più la costruzione della loro identità, la loro esistenza sociale a modelli esterni che dettano regole e modelli a cui adeguarsi e che vengono assunti senza senso critico. La cosa più importante è essere accettati a ogni costo, anche se bisogna nascondere le proprie emozioni e i propri pensieri».

Le relazioni che riempiono il vuoto

La relazione diventa  talvolta il riempitivo del disagio, del malessere, del vuoto di identità riempito. E quando la relazione va male i maschi a volte non riescono a gestire il rifiuto.

«Quando si stabiliscono queste relazioni tra giovani, in cui spesso la ragazza è quella che si afferma, quella che va avanti nel suo progetto di vita, capita sempre più spesso di vedere i ragazzi che si appendono alla sua identità, come rampicante su un traliccio. Se lei se ne va, il rampicante cade a terra: è un modello abbastanza frequente, che si sta riproponendo spesso». Giuliana Torre è psichiatra e psicoterapeuta, che da sempre si occupa delle tematiche legate agli adolescenti e giovani adulti. «Non sono maturi – prosegue – hanno la pretesa di crescere in quel modo, appesi, senza rendersi conto che aggrappandosi diventano qualcos’altro, non crescono. È una deviazione rispetto alla maturazione personale, è una via breve ma totalmente fallimentare». Molto spesso, gli stessi assassini fanno fatica ad ammettere di essere colpevoli, anche di fronte alle evidenze ma che hanno normalizzato l’atto violento, l’annientamento dell’altro come soluzione.

L’incapacità di accettare la fine delle relazioni

L’incapacità di accettare l’abbandono, la fine della relazione, vengono spesso citati quando si scava alla ricerca di un motivo da cercare per comprendere uccisioni come queste, come se un motivo possa trovarsi. Motivazioni non ce ne sono, ma comprendere i meccanismi può aiutare a capire come lavorare sulla prevenzione nella nostra società. E allora riemergono le analisi sull’incapacità di gestire la frustrazione e di avere a che fare con un’immagine di sé che non è quella desiderata. «Qui emerge un altro tema – dice Giuliana Torre – che è che nessuno vuole più fare il genitore, sull’onda del “lo lascio libero, gli do fiducia”, dimenticando che un “no” dosato e detto al tempo giusto permette di costruire l’autostima, altrimenti il “no” diventa uno shock, una tragedia e allora ecco che emergono meccanismi istintuali arcaici, che significano che devo eliminare l’altro per salvarmi io».

La fine della relazione, sottolinea Perrone, «può essere vissuta come la perdita non solo dell’altro ma anche di se stessi. La fine di questo tipo di relazione diventa insopportabile per molti, spesso i ragazzi hanno paura di mostrare le proprie emozioni, la propria fragilità perché temono di essere derisi, di essere considerati deboli, non riescono a parlarne e l’unica emozione che sembra consentita è la rabbia che si alimenta sempre di più e può sfociare in violenza».

La forza delle ragazze, la rottura degli stereotipi

Un altro elemento da considerare è la maggiore forza e consapevolezza che in genere le ragazze mostrano di fronte ai loro coetanei. Ragazze che sono più determinate rispetto alle loro mamme o zie, più decise a non arretrare di fronte ai propri diritti e desideri. «La maggiore libertà, la maggior consapevolezza di sé, e anche il nutrimento di aspirazioni personali e relazionali più gratificanti da parte delle giovani donne sono un guadagno fondamentale non solo per loro ma per la società in quanto tale, ma è possibile che tra i giovani maschi la rottura di canoni e di ruoli stereotipati (nelle aspettative verso gli altri ma anche verso di sé), e la dismissione non solo di privilegi ma anche di rituali e di distintivi di status sia vissuta in modi profondamente diversi», spiega ancora Deriu.

“Vedo – fa eco Andrea Bagni, professore per 40 anni negli istituti superiori – figure maschili adolescenti a scuola molto fragili, decisamente più fragili delle ragazze non solo dal punto di vista dell’esperienza scolastica, ma della sicurezza di sé, anche nel terreno sentimentale e sessuale. Ragazze spavalde nel confronto con coetanei insicuri. Credo che il patriarcato sia sullo sfondo, ma ci sommo anche l’incapacità di accettare la sofferenza, il rischio che si corre sempre quando si ci innamora».

Alla ricerca di un modello maschile

Di fronte a questa situazione, di fronte agli stereotipi patriarcali e del Macho Alfa sempre più in crisi e all’incapacità di costruire la rivoluzione delle relazioni invocata da Deriu, occorre cercare, costruire nuovi modelli maschili. Secondo Bagni «ci vogliono luoghi dove gli uomini, i ragazzi possano esprimere quello che hanno dentro».

Per Stefano Cirillo, psicoterapeuta sistemico, «va fatta una riflessione sulla normalizzazione della violenza, da un lato, e sulla totale incapacità di contenere gli impulsi dall’altro, come se fossero vimpreparati di fronte all’emersione di impulsi che non sanno contenere». Cirillo cita il caso di Mark Samons, l’assassino di Ilaria Sula, che dopo aver compiuto il femminicidio «è andato a dormire a casa di un amico, sono usciti insieme e lui rideva. Nel racconto non c’è nessuna traccia neanche minima di senso di colpa».  Cirillo, riflettendo sui modelli maschili, dice che spesso ci si trova davanti «ad adolescenti con un corpo da grande ma una testa da bambino, solleticata da stimoli e pressioni di essere “veri maschi e veri uomini”».

Il ruolo degli adulti, delle istituzioni, della società

Cercare di andare a fondo delle dinamiche psicologiche e sociologiche dei femminicidi giovanili non deve però far perdere di vista l’obiettivo: quello di un cambiamento che non riguardi solo il singolo, ma un sistema socio-culturale. Sicuramente, in questo senso, è fondamentale il ruolo degli adulti (dai genitori alla scuola alla società tutta) per una presa di coscienza e di responsabilità. Ma anche di un cambiamento importante dei modelli maschili di riferimento. Per Simona Lanzoni, vicepresidente di Pangea Onlus, «i casi di cronaca dimostrano che le giovani continuano a essere vittime di violenza e femminicidio. Abbiamo una nuova legge sul femminicidio ma ultimamente sono uscite sentenze agghiaccianti su chi commette un femminicidio. Dobbiamo parlare di analfabetismo emotivo e incapacità di relazionarsi con l’altro sesso. Dobbiamo interrogarci su quali sono le risposte a livello di politica, di misure, inclusi fondi per fare prevenzione nelle scuole e nelle università, non possiamo più aspettare. Siamo a un livello di consapevolezza dell’opinione pubblica importante, i genitori si interrogano, e la risposta sta nelle istituzioni e nel lavoro che va fatto nelle scuole e università e istituzioni. Un lavoro che va fatto anche con la società civile e con i centri anti violenza. Serve, cioè un dialogo tra il ministero dell’ Istruzione, l’associazionismo, il Dipartimento per le pari opportunità».

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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.

Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.

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