Ci sono alcune parole che a volte balbetto: ad esempio quelle che iniziano con la N, la D, e la V. È molto difficile associare ognuna di queste iniziali a parole specifiche. Ma man mano, crescendo, qualche risposta me la sono data. La N, ad esempio, sta per ne*ro. La V, invece, per violenza.
Il 25 Novembre, da sempre, per me è un giorno della memoria. Non mi piace molto espormi, il 25 Novembre. È il mio giorno del silenzio, del ricordo, della riflessione. E forse è lo stesso per tutte quelle donne a cui questa ricorrenza serve per curare, anno dopo anno, la ferita della violenza.
Fortunella ed io
Ricordo bene il giorno in cui ho messo piede in un centro antiviolenza. Ero una bambina e sono entrata da quella porta con le mie cose più importanti: lo zaino, i quaderni e la scimmia Fortunella (il mio peluche preferito). Mi sembrava quasi di essere in vacanza. Una stanza con il bagno in camera, come in albergo. C’erano molti bambini come me. Alcuni erano davvero simpatici.
Mi piaceva molto quel posto, ma alcune regole erano un po’ strane. Ad esempio mio nonno non poteva entrare, doveva aspettare fuori. Mia nonna e mia zia invece potevano entrare. Non era una prigione. Ma non si poteva entrare o uscire a piacimento. Però lì dentro c’era tutto quello di cui avevo bisogno: giochi, risate, la mia mamma.
Sono anni che mi dico “questo 25 Novembre è il mio anno per non rimanere in silenzio”. Ma serve davvero tantissimo coraggio. Perché alla base di ogni forma di violenza, sempre, c’è una storia che non si può davvero raccontare o trasferire. È “complicato”, mi dico. Spiegare è faticoso. Ordinare i pensieri impegnativo. È un gomitolo che richiede tempo.
Crescendo non si è mai sbiadito il ricordo di quel periodo. In realtà è stato un periodo più felice di quanto si possa immaginare. Ma so anche che dentro di me c’è molto più di questo.
“Ti ammazzo di botte”, “mamma mia che violenza che le farei”, “stai zitta”. Quando un uomo utilizza queste frasi per fare una battuta io non rido. Mi si gela la testa e le corde vocali si bloccano. E quindi urlo dentro, nel silenzio assordante della mia e di tutte le storie di violenza invisibili, intangibili, infrangibili.
Numeri troppo alti
Nel 2021, secondo UN Women, più di 45 mila donne e bambini nel mondo sono state uccise dal proprio partner o da una persona della famiglia. Stando a questi numeri significa che 5 donne o bambine vengono uccise ogni ora all’interno della propria famiglia.
Sempre UN Women stima che 736 milioni di donne (una su tre) sono state soggette a violenza fisica o sessuale da parte del partner almeno una volta nella vita. Dai 15 anni in su. Ma solo il 40% delle donne che sperimenta una violenza chiede un aiuto di qualsiasi tipo. E in tutti i casi solo il 10% si rivolge alla polizia.
E la violenza sulle donne si trasforma ogni giorno, prendendo le forme della modernità. Una donna su 10, in Europa, ha sperimentato una violenza digitale, inclusi la ricezione di messaggi e avance sessuali non desiderati.
Anche i cambiamenti climatici e il lento degrado ambientale aggravano i rischi di violenza contro donne e bambine. La causa: gli spostamenti, la scarsità di risorse, l’insicurezza alimentare e l’interruzione dell’erogazione di servizi per le vittime.
In Italia le donne che si rivolgono ai Centri Antiviolenza sono 34.500 donne e 21.252 di queste ha figli. Su un totale di 15.248 figli minorenni, la percentuale di quelli che hanno assistito alla violenza del padre sulla madre è pari al 72,2%.
La (mia) violenza assistita
Ho ricordi sbiaditi delle donne che ho conosciuto in quei mesi. Crescevamo insieme come una famiglia. Non mi rendevo conto in quel momento della fatica, del coraggio, della complessità di una scelta che cambia tutto. Andare a vivere lontane da casa, nascondersi, proteggersi. Curarsi. E poi c’erano le operatrici e le volontarie. Altre donne presenti per le donne. Ma per me era tutta un’unica comunità.
Solo adesso, se ci penso, capisco. Un dolore che si unisce all’autodeterminazione. Il pudore che si mischia con il coraggio. Il fallimento che si confonde con la cura. La solitudine che si disperde nella comunità.
C’erano tante donne, ma anche tante mamme. E anche tante piccole donne come me. Immerse nei tappeti di spugna vivevamo quel momento come una piccola fase della nostra vita. Forse quasi come un gioco. Non lo sapevamo, noi, di essere vittime di violenza assistita.
La violenza assistita è stata definita dal Cismai (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso dell’Infanzia) come “il fare esperienza da parte del/la bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative”.
È qualcosa che rimane dentro per sempre e probabilmente ogni bambina reagisce a modo suo. Grazie all’amore di mia madre, alla rete di supporto e forse a una luce che mi è stata regalata (e di cui non mi prendo i meriti) oggi quel dolore, in me, si è trasformato in consapevolezza e libertà.
Ma non è che il dolore non c’è più, non va mai via. È un dolore che ha un colore invisibile.
Il 25 Novembre per me è il giorno del ricordo, ma anche il giorno della responsabilità. Nessuno si salva da solo. Nessuna si salva da sola.
Se sei un uomo o una persona che non ha conosciuto la violenza di genere
Non giudicare: chiedere aiuto è davvero difficile. Ognuno di noi, esseri umani, si sedimenta in condizioni utili alla sopravvivenza. Che siano condizioni sane oppure no. È il nostro modo per rimanere al mondo. Denunciare, scappare: è un domino di impatti su una vita che, comunque, è in equilibrio. Dall’esposizione personale, alla scuola dei bambini. È una questione emotiva. Ma anche una complessità logistica. Significa guardarsi allo specchio e vedere nitidi anni di svalutazione. Non c’è quasi nessuno, a braccia aperte, pronto ad accogliere subito una donna sola che ha denunciato una violenza.
Non svalutare: il fatto che sia successo anche a tua nonna o tua zia, “ma loro sono state forti per i figli e hanno sopportato”, è un racconto molto vintage. Molte donne nella storia hanno dovuto continuare a subire in silenzio perché non avevano altra scelta. La violenza si innesta come i virus in ogni piccola azione. Battute, gesti, toni di voce, parole: sono tutte micro particelle che alimentano un immaginario culturale stereotipato e violento.
Non generalizzare: la violenza sulle donne non è uguale alla violenza sugli uomini. Proprio come non si può parlare di discriminazione al contrario. La violenza sulle donne è radice sistemica di uno sguardo culturale che vuole gli uomini al centro e le donne in periferia. E come sempre: non è una colpa, ma è una responsabilità.
Non ignorare: non sempre abbiamo gli strumenti per fare la nostra parte, ma alcune volte possiamo fare la differenza. Ci sono due parole magiche, secondo me, che guidano la responsabilità individuale: micro-aggressioni e coraggio civile. Le micro-aggressioni sono tutte quelle azioni che precedono l’aggressione e la violenza. Come le battute sulle ragazze che incontriamo in metro, i commenti sulle giornaliste al tg, l’apprezzamento alla collega. Il coraggio civile è invece la nostra capacità di fronteggiare le micro-aggressioni. Riconoscerle, non girare la testa dall’altra parte. Essere cittadini, essere umani e non animali. Intervenire con coraggio. Civile.
Se sei una donna, hai subito o subisci una violenza
Non sei sola. Siamo migliaia, milioni, invisibili. Ma siamo intorno a te. Non c’è niente di semplice e io lo so bene. Ma oltre la violenza e la svalutazione c’è una luce intensa fatta di autodeterminazione e di libertà.
Io ti abbraccio e faccio il tifo per te. E faccio il tifo per te da quando sono bambina. E da bambina, insieme ad altri figli e figlie, ho scoperto la potenza dirompente della rete di supporto, la forza immensa di donne che hanno scelto di scegliersi. Sono una figlia tra tante figlie che, attraverso il dolore e l’impatto con la verità, è riuscita a piantare un semino e far nascere un fiore. Il prossimo fiore, il più delicato di tutto il prato, può essere il tuo.
Donne e bambine invisibili
Ogni tanto, quando scorro gli album delle foto di quel periodo, mi chiedo che fine abbiano fatto quelle donne e quelle bambine. Non ricordo neanche un nome, non saprei riconoscerle. Per me è stata una fase, un atto di un film. Mi chiedo se sia stato lo stesso per loro. Che donne sono diventate, le bambine con cui giocavo. A volte penso che potrebbero essere sedute al mio fianco quando sono in treno, oppure ad ascoltarmi nella platea di un evento. Senza ricordarsi di me. E io senza ricordarmi di loro. A volte mi chiedo dove sono, queste bambine, piccole donne invisibili. Proprio come me.
Questo, come ogni 25 Novembre, mi mancano le parole. E quindi celebro un po’ meno in silenzio di ieri le bambine e le donne invisibili. Quelle che incontriamo in metro o a lavoro ogni giorno. Quelle che abitano nella casa a fianco o ci servono un caffè al bar. Quelle che non sappiamo riconoscere e che non si fanno riconoscere. Quelle donne che ricostruiscono pezzi di vita con silenzio e dignità. E affrontano invisibili il dolore della violenza.
Noi non la vediamo, ma la violenza invisibile è sempre intorno a noi. È pieno di storie invisibili. E il 25 Novembre, per me, serve per non scordarlo mai.
A mia mamma: io la tua consolazione; tu il mio sole, la mia luce, il mio telefono.
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