Discriminazione al contrario, davvero la maggioranza può sentirsi esclusa?

Tutte quelle volte che: “In questa call sono io, maschio, a essere in minoranza!” oppure “Ormai siamo noi uomini quelli discriminati!”.

Tutte quelle volte che: “Quando viaggio in Africa vengo discriminato dalle persone del posto” o “Le quote non sono in qualche modo un trattamento speciale verso le donne?”.

Quel pensiero che si annida con leggerezza

“questa è discriminazione al contrario”

Quello sulla discriminazione al contrario è un dibattito che affronto quasi tutti i giorni. È un argomento serio e importante, perché le sue questioni riguardano scelte politiche, economiche, sociali. Come lo è stato per le affirmative actions negli USA o per le quote rosa in Italia.

Le discriminazioni positive e il mondo al contrario

Un mese fa, negli Stati Uniti, una sentenza ha fatto la storia. La politica sulle affirmative actions è stata definita una discriminazione al contrario e bloccata dalla Corte Suprema.

Leaffirmative actions (ovvero le discriminazioni positive) consistono in mandati di governo o programmi privati attivi negli Stati Uniti volti a favorire l’inserimento di gruppi storicamente marginalizzati. In particolar modo minoranze etniche e donne.

Nel 1970, prima che le affirmative actions venissero istituite, il 91% degli studenti statunitensi iscritti all’Università era bianco. Nel 2020 la percentuale di studenti bianchi era pari al 50%, di studenti neri al 12% (sul 13.6% di neri presenti negli USA) e di studenti ispanici al 20% (sul 18.9% di ispanici presenti negli USA).

Nel 2023 un aspirante candidato bianco a Harvard ha fatto causa all’Università per discriminazione al contrario, e ha vinto. Niente più quote, perché (a detta della Corte Suprema) i bianchi rischiano davvero di ottenere meno opportunità di tutti gli altri.

Quello sulla discriminazione al contrario, che ci piaccia o no, è un pensiero comune e diffuso.

È comune sicuramente negli USA, dove un’indagine condotta da PEW nel 2019 ha rilevato che il 12% dei rispondenti sostiene che essere bianchi oggi è un limite per ottenere opportunità nel Paese. E un’altra indagine nel 2022 ha concluso che il 30% dei rispondenti bianchi percepisce “molta più discriminazione rispetto al passato verso i bianchi americani”.

Anche in Italia è un pensiero diffuso. È uscito proprio pochi giorni fa un libro, scritto dall’ormai destituito generale Roberto Vannacci, dal titolo “Il mondo al contrario”. Ammetto di non aver letto il libro, ma da quel che ho capito quella del generale è un’aspra critica sull’ascesa al potere delle minoranze.

E questo timore, in un certo senso, è anche comprensibile. Perché alla fine prima delle affirmative actions e delle quote il mondo girava lo stesso e le opportunità c’erano. C’erano standard e criteri per definire chi era bravo e chi no. Almeno agli occhi di quelle opportunità le aveva toccate con mano e ottenute.

Esiste davvero la discriminazione al contrario?

Esiste davvero la discriminazione al contrario?” è la grande domanda.

Credo profondamente che le domande complicate non possano prevedere risposte semplici. Ma questo è forse uno dei pochissimi casi in cui di complesso non riesco a vederci niente. Tantomeno di divisivo.

A pensarci è strano immaginare che esista una discriminazione dritta e un’altra al rovescio. Perché se parliamo di una forma “al contrario” vuol dire che presupponiamo ce ne sia un’altra: dritta, quella giusta, nella norma. La discriminazione “dritta” come solitamente la intendiamo, riguarda tutti quegli episodi in cui i gruppi di maggioranza sono privilegiati, a discapito di gruppi di minoranza. E forse la chiamiamo “dritta” perché nel nostro immaginario è proprio così che dovrebbe andare. E poi c’è la discriminazione al contrario. Quando sono i gruppi di maggioranza a essere esclusi.

La risposta è semplice: no, la discriminazione al contrario non esiste. Vive solo nelle nostre fragilità ed è divisiva solo per chi fa fatica ad accettare il proprio privilegio.

Non esiste per un motivo molto semplice: la discriminazione di cui parliamo si riferisce a meccanismi di oppressione sistemici e istituzionali. Che non sono replicabili al contrario. Se la gravità ci spinge giù, non possiamo mica essere spinti verso l’alto. Ci sono cose non possono andare sia dritte che al rovescio. E la discriminazione è una di queste.

Perché? Il senso della discriminazione strutturale

La discriminazione, che sia di razza, etnia o altro, è un fenomeno strutturale. Strutturale significa che la discriminazione nasce dalla somma di due dimensioni: pregiudizio e potere istituzionale. Significa che quel pregiudizio è così radicato che volente o nolente manipola le opportunità di giudizio, di accesso, di crescita.

Fa riferimento al modo con cui la relazione tra un certo Paese o un certo gruppo sociale e la categoria marginalizzata (che sia etnia o genere) impatta e distorce la possibilità di ottenere delle opportunità.

Lo spiega molto bene e in modo molto semplice il comico australiano e nero Aamer Rahman. In un video di 3 minuti che merita di essere visto per intero.

“Anche io potrei essere un razzista al contrario, se volessi. Mi basterebbe avere una macchina del tempo. Dovrei andare.. a prima che l’Europa colonizzasse il mondo per convincere i capi di Africa, Asia, Merio Oriente, Centro e Sud America a invadere e colonizzare l’Europa. Occuparli, rubare le loro terre e risorse. Mettere in piedi una sorta di tratta di schiavi Trans-Asiatica esportando i bianchi per lavorare in enormi piantagioni di riso in Cina. Insomma, rovinare l’Europa per un paio di secoli! Così che tutti i suoi discendenti vorranno emigrare e vivere nei posti in cui vivono le persone nere.. Ah! E poi ovviamente a quel punto mi accerterei di aver creato sistemi che avvantaggiano le persone nere in ogni modo possibile sul piano sociale, politico e economico, togliendo ai bianchi qualsiasi possibilità di reale autodeterminazione. E poi ogni vent’anni creerei qualche finta guerra come scusa per bombardarli e farli tornare all’età della pietra, dicendo che è per il loro bene, perché la loro cultura è inferiore. Poi, così tanto per.. assoggetterei i bianchi agli standard di bellezza delle persone nere fino a fargli odiare il colore della loro pelle, occhi, capelli. Se.. dopo centinaia, e centinaia, e centinaia di anni di tutto questo salissi sul palco e dicessi “ma cos’hanno questi bianchi?! Perché se la prendono così tanto?!”. Allora quello sarebbe razzismo al contrario”

La discriminazione, come raccontano Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Catena Mancuso nel podcast “Sulla Razza” non è solo una legge, ma un’eredità di pratiche e comportamenti istituzionalizzati ai danni di gruppi marginalizzati. Non è una credenza individuale, è una credenza istituzionale, storica, sedimentata. Per questo è solo dritta e non può essere al rovescio.

Cosa succede quando è una minoranza a discriminarci

Questo quindi vuol dire che quando è un gruppo di minoranza a discriminare un gruppo di maggioranza non possiamo parlare di discriminazione? Non possiamo parlare di discriminazione strutturale. E non possiamo farlo per due motivi: perché quell’atteggiamento si basa su un pregiudizio individuale e non su un meccanismo strutturale; e perché il gruppo di minoranza, essendo di minoranza, non ha potere fattuale di farci perdere una serie infinita di opportunità da qui alla fine della nostra vita.

Il senso di esclusione può durare il tempo di una vacanza, ma non di più. Come dice il comico Raham, se quel gruppo di minoranza arrivasse al potere e discriminasse tutti gli altri per centinaia di anni allora si, potremmo parlare di discriminazione al contrario.

Non significa che un senso di esclusione vissuto in una settimana di vacanza non sia importante. O che per un uomo partecipare a tre ore di riunione in mezzo a un gruppo di donne non sia imbarazzante. O che assistere all’immagine maschile fragile e periferica rappresentata nel film Barbie non sia destabilizzante. Il dolore è soggettivo e personale, e anche un unico piccolo episodio può ferire profondamente. Ma non possiamo parlare di discriminazione al contrario. Perché è un episodio, non è strutturale.

La fatica sociale di riconoscere la propria condizione

Come per la meritocrazia, l’etnocentrismo e il privilegio (temi che ho trattato in altri articoli) accettare che la discriminazione al contrario non esiste non è semplice. Ci obbliga a fare i conti con la fragilità del nostro privilegio, il peso di una storia che ha favorito bianchi, abili e maschi. Che ha fondato il concetto di evoluzione su una sola e unica intelligenza: quella logico matematica. E che con questi presupposti, a suon di guerre, conquiste e campagne elettorali, ha affossato tutti gli altri.

C’è un senso di colpa inconsapevole in chi fa fatica ad accettare che la discriminazione al contrario non esiste. E così, quando parliamo di discriminazione al contrario, procrastiniamo il mito per cui siamo tutti uguali, negando l’eredità economica, politica e sociale del nostro paese. Negando che essere bianchi, maschi, intelligenti, abili, non sia di per sé un vantaggio.

E poi dall’altra parte c’è il senso profondo di disagio che provano i gruppi di minoranza. Anche a me è successo più di una volta. Mi è successo di captare in modo più o meno esplicito di essere stata scelta per criteri di discriminazione positiva: perché ero l’unica nera. E ogni volta è stato un colpo molto doloroso. Anche a me è successo, come succede a tante donne quando si parla di quote, di dirmi tra me e me che quella pratica io non la volevo. Vedere, sentire, provare. Perché ce l’avrei fatta da sola. Perché quella quota screditava e sviliva la mia professionalità.

Certo, a volte c’è il rischio reale di tokenismo: il fenomeno attraverso cui gruppi di maggioranza reclutano, all’interno di un determinato contesto, persone appartenenti a gruppi di minoranze per lanciare un messaggio di inclusività, che molto spesso si rivela essere falso. Ma altre volte ho capito che in quel disagio si annidava la mia resistenza nell’accettare di essere socialmente parte di una minoranza. Di essere a rischio di esclusione. Perché in quella resistenza, anche per me, c’è il dolore delle donne, dei giovani e dei neri che mi hanno preceduta. E anche il mio dolore. Sentirlo, accoglierlo, è doloroso. Come lo è per una persona privilegiata, accettare di esserlo.

Dice Remi Eddo-Lodge nell’ormai storico articolo “Perché non parlo più di razza con i bianchi”: “non accettare che esiste una discriminazione strutturale è un pensiero infantile, come a dire che le persone vengono discriminate solo per il colore della loro pelle o per il loro sesso. In quel solo manca l’onestà del modo con cui il potere strutturale ha forgiato nel corso della storia le opportunità di accesso e crescita”.

La discriminazione positiva non è un pericolo per la maggioranza

Le discriminazioni positive, quote, affirmative actions non privilegiano un gruppo a discapito di altri.

Sono meccanismi imperfetti, sicuramente è così. Vivono di inciampi, male interpretazioni, errori. Sicuramente esistono soluzioni migliori. Per ora, però, soluzioni che siano ugualmente veloci e efficaci non le abbiamo trovate. Ma queste soluzioni, per quanto efficaci, non portano con sé alcun rischio di discriminazione al contrario. Non potranno mai destabilizzare meccanismi di potere, non sono un pericolo sociale. Per renderle un pericolo ci vorrebbe molto di più. Sono solo un piccolo passo verso una prima piccola soluzione: garantire rappresentazione. Garantire che i gruppi sociali si rappresentino da soli. E pensare che per rappresentarsi da soli basti il duro lavoro, come dice Reni Eddo-Lodge “è un esercizio di ignoranza intenzionale”.

L’inclusione riguarda le nostre identità, la nostra storia, le nostre relazioni e le nostre leggi. Riguarda così tanti livelli logici che tenerli tutti insieme è un esercizio di equilibrismo. Sono profondamente convinta che per costruire fondamenta profonde, leggi e politiche non siano sufficienti. Credo nella possibilità che le nostre menti possano riflettere e affermarsi con profondità, credo nelle porte sicure che sappiamo aprire dentro di noi, per sussurrarci la verità, con autenticità. Credo nella capacità sociale di agire con realismo. Credo nei processi agili e iterativi: la specie umana avanza bendata come un bambino ai primi passi. Per tentativi ed errori.  Sbaglia, realizza, razionalizza, impara, ricomincia, evolve, si trasforma.

L’inclusione è questa cosa qui: un processo magico, doloroso, positivo. Di accettazione autentica di sé, di comprensione dell’altro, di convivenza sociale. È un flusso infinito di nuove verità.

***

La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.

Per scrivere alla redazione l’indirizzo è: alleyoop@ilsole24ore.com