Larry Fink è un signore che gestisce, più o meno direttamente, 10.000 miliardi di dollari. Siccome siamo in ordini di grandezza poco familiari, può essere utile sapere che il PIL degli Stati Uniti è di 21.000 miliardi di dollari e che quello dell’Italia è di circa 2.400 miliardi. Larry Fink, attraverso la società di gestione BlackRock di cui è presidente e ceo, gestisce insomma la finanza di quattro Italie. Non sono suoi, lui ne ha “appena” 1,1 miliardi: sono i soldi di quelli che lui chiama “shareholders” (azionisti) o clienti, e che identifica con i diversi milioni di persone che, attraverso organismi intermedi, affidano i propri risparmi alle scelte di investimento della sua società.
La lettera di fine anno che Larry Fink manda ai migliaia di ceo delle società in cui BlackRock ha investito è diventata da tempo un appuntamento importante, di indirizzo, per tutto il mondo finanziario – e di conseguenza per tutto il mondo. Larry Fink è un influencer e muove intere economie. Per fortuna, da qualche tempo in modo sempre più evidente, il finanziere è diventato un appassionato sostenitore della sopravvivenza del Pianeta. La sua attenzione si appunta ogni anno su pochi concetti in modo chirurgico, e nessuna parola della sua missiva cade a caso. Quest’anno, oltre a indicare con determinazione la strada della de-carbonizzazione, la prima parte della lettera tocca un altro tema: prima di parlare di come rendere sostenibile il Pianeta, Fink ha deciso di parlare di come rendere sostenibile il lavoro. Anche perché, se non rendiamo sostenibile il lavoro umano, il resto non segue.
Chiunque si interessi del tema del lavoro può andare a cercare nelle sue parole i concetti chiave, i veri nodi davanti a cui si trovano oggi aziende e datori di lavoro: se sono finiti nella lettera di Fink è perché le vecchie soluzioni non bastano più. Non basta allungarle, rinominarle, digitalizzarle: le modalità con cui sono stati visti, “gestiti” e ricompensati i lavoratori fino a oggi si sono improvvisamente rivelate obsolete. Il maggiore ostacolo al cambiamento, però, sono proprio le soluzioni esistenti: ingombrano la vista e forniscono risultati parziali e provvisori che, soprattutto nell’emergenza, sembrano sempre “abbastanza buoni”, ritardando la decisione di andare oltre. Il mediocre è il peggior nemico del buono, e di soluzioni mediocri il mondo del lavoro sopravvive da veramente tanto tempo: non è un segreto per nessuno.
Il vero segreto, o la domanda, è: da dove cominciare? Quando si ha davanti una missione colossale, la tentazione è quella di rimandare. Per ognuno di noi singolarmente questo cambiamento è troppo grande: le condizioni perché decidiamo di cominciarlo non si verificano, manca sempre qualcosa o qualcuno che dia il vero e proprio via. Larry Fink, con la sua lettera, lo fa. E dice anche da dove si potrebbe cominciare. Fa, essenzialmente, ai “suoi” ceo quattro domande, a cui corrispondono i pilastri di una strategia HR.
1) Che cosa state facendo per rendere più profondo il legame con i vostri dipendenti?
“Legame” è una parola forte ed è, soprattutto per la cultura americana, molto inusuale nel mondo del lavoro. E’ una parola presa a prestito dal mondo delle relazioni più strette: dell’amore, della famiglia, dell’amicizia. Tra le persone che lavorano insieme, siano esse datori di lavoro o lavoratori (distinzione sottile e spesso inutile) c’è un legame che è diventato più visibile nella distanza e nell’emergenza, quando l’eccezionalità delle circostanze ci ha spinti a verificare da chi fosse composta la rete che ci teneva su. Non è solo una transazione economica, un mero dare e avere: la relazione lavorativa implica fiducia, responsabilità, amore (quantomeno per ciò che si fa, se non per le persone con cui e per cui lo fai: l’amore nella sua accezione più ampia è una condizione di operosità).
C’è nella vostra azienda l’obiettivo di riconoscere questo legame, e addirittura di investire per renderlo più profondo?
2) Come vi state accertando che tutti, ma proprio tutti, i vostri dipendenti si sentano abbastanza al sicuro per massimizzare la loro creatività, innovazione e produttività?
Se c’è un legame, ci si sente più al sicuro. Sentirsi al sicuro è precondizione di produttività, è alla base dei nostri bisogni: se non ci sentiamo fuori pericolo, non siamo in grado di fare nulla . Poi c’è un livello di sicurezza più raffinato, ed è quello che ci consente di osare. Fink mette insieme creatività, innovazione e produttività: non basta la sicurezza che ci consente di accendere il PC e digitare per 8 ore al giorno: oggi produrre in modo competitivo vuol dire creare (immaginazione, pensiero laterale, energia) e innovare (rompere gli schemi, fare errori nuovi, uscire dal ruolo). E’ questo il livello di sicurezza che le aziende dovrebbero generare: una sicurezza che non solo tolleri ma incentivi il coraggio, la sperimentazione… l’errore dato dall’errare in direzioni nuove. E non solo per alcuni: per tutti. Questa è una direzione che si scontra con tantissime soluzioni esistenti: vuol dire che servirà un bel po’ di denstruens prima di arrivare alla parte costruens.
Che cosa siete disposti a sacrificare, a buttare via, per fare spazio al nuovo?
3) Come fate in modo che il vostro board sappia tutto ciò che serve su questi temi critici?
Ma come, davvero queste cose dovrebbero interessare al board? Il board non si occupa solo delle priorità? Non stiamo parlando qui dei mezzi del lavoro, e al board spetta solo di vederne i risultati? Mettere il board a questo punto del discorso è una vera rivoluzione. Chiedere che questi temi siano nell’agenda del top management: visibili, in discussione, monitorati e con obiettivi ambiziosi. A lungo termine (il lungo termine è la premessa di tutta la lettera, ma andrebbe ripetuto a ogni riga). Le persone che lavorano, il loro modo di lavorare, temi come l’equità, la cura dei bambini, la salute mentale, il dare significato al lavoro (tutti citati nel testo), riguardano il top management, lo chiamano in causa. Fink chiede ai CEO come (e non se) si stanno adoprando perché questo sia chiaro: il capitale umano è alla base della sostenibilità economica, della crescita, del presente e del futuro.
Dove siede il dipartimento HR nella vostra azienda, quanto potere ha (e quali obiettivi)?
4) Dove e come lavoriamo non sarà mai più come in passato. Come si sta adeguando la cultura della vostra azienda a questo nuovo mondo?
Ahi, la cultura, se ci fosse una tombola delle parole difficili del mondo delle risorse umane uscirebbe sempre: che cos’è, dove sta, come si osserva e nutre, come si misura? Chi decide se funziona, se è adeguata, se va aggiornata? Cultura vuol dire letteralmente coltivazione e vi si associano istruzione ed educazione: cosa impariamo e come stiamo insieme, il tessuto invisibile che definisce cosa è giusto e cosa è sbagliato, le maglie più o meno strette di quel che ci consentiamo gli uni gli altri di essere. E’ potente, nella sua invisibilità, la cultura di un’azienda, ed è in costante tensione con la cultura esterna attraverso vasi che conducono in entrambe le direzioni. Adeguare la cultura vuol dire aprire gli occhi a “questo nuovo mondo” e quindi lasciarsene travolgere restando in piedi, con l’unica possibilità di mantenersi saldi su ciò che ancora ci convince: ritrovare le ragioni di fondo per cui facciamo quel che facciamo. Uno sforzo enorme, che però ci rimetterebbe in (una nuova) carreggiata.
Come, con quali azioni, la vostra azienda sta adeguando la sua cultura?
Quattro domande a cui non serve una risposta immediata. Ma la domanda sì, è necessaria.
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