“I bambini e le bambine quando nascono non hanno “filtri” e quindi stereotipi a guidare il loro comportamento, noi genitori dovremmo aiutarli semplicemente a rimanere liberi“.
Rimanere liberi. Un concetto che ultimamente si usa spesso, ma che bisogna riempire di significato perché non sia solo uno slogan. Lo fa Matteo Bussola, classe 1971, fumettista, scrittore e conduttore radiofonico italiano, laureato in architettura allo IUAV di Venezia. Su Radio24 ogni domenica alle 11 conduce insieme a Federico Taddia la trasmissione Padri Eterni. E ora in libreria con “Viola e il blu”, un libro dialogo fra padre e figlia.
Matteo, com’è nata l’idea di questo libro?
E’ un argomento, quello degli stereotipi di genere, che volevo affrontare da anni e che è nato dall’esperienza e dal confronto con le mie tre figlie, di 8, 10 e 14 anni. Immagina quanti ne abbiamo incontrati, e a volte subiti! La figlia più grande, per esempio, ha smesso di giocare a calcio perché la prendevano spesso in giro, le dicevano che faceva uno sport “da maschi”. Ma, attenzione: gli stereotipi colpiscono tutti, anche i bambini che giocano con le bambole e che spesso sono guardati con diffidenza, come se stessero facendo qualcosa di sconveniente. Ancora oggi, infatti, siamo in grado di accettare come “normale” una bambina che gioca con le bambole a fare la mamma, mentre un bambino che gioca a fare il papà ci appare insolito. Perché? Perché agli stereotipi di genere conseguono quelli parentali o di ruolo, sono due facce della stessa medaglia.
Nella nostra famiglia, per esempio, la mia compagna ed io ci dividiamo equamente i compiti e spesso mi trovo a fare cose che, nella società patriarcale e maschilista in cui viviamo, vengono considerate prevalentemente da mamma, come cucinare o seguire le figlie nei compiti o accompagnarle nelle varie attività, e proprio per questo più volte mi hanno definito un “mammo”. Un termine che trovo orribile e riduttivo, perché riflette molti pregiudizi – l’affettività, l’amorevolezza, la presenza, la cura, dovrebbero essere un territorio esclusivo delle donne e madri? – e soprattutto limita il potenziale di ogni persona, rinchiudendola come in una gabbia.
La fiamma che mi ha spinto finalmente a riordinar le idee e a scrivere il libro è stata però una scoperta casuale, ma folgorante per me: il rosa, che noi consideriamo “naturalmente” un colore da femmine, in realtà fino ad un recente passato era invece attribuito ai maschi, e viceversa. Il messaggio del libro è proprio questo: non c’è nessuna predisposizione naturale di genere verso i colori, i giochi o anche l’apprendimento, questi stereotipi sono una costruzione culturale, una “sovrastruttura” sociale che non ha nulla di innato e che invece ci limita e rischia di renderci infelici. Capirlo è il primo passo per liberarcene.
Qual è il pubblico a cui si rivolge “Viola e il blu”?
Il libro è dedicato ai bambini e alle bambine, ed è impostato come un dialogo interattivo tra padre e figlia in modo da rendere le riflessioni semplici e concrete. Fin dall’inizio del libro dichiaro “guerra” agli stereotipi perché nella famiglia di Viola la mamma è ingegnere ed è spesso fuori casa per lavoro, mentre il papà fa il pittore, ha lo studio in casa ed è perciò in “prima linea” nell’organizzazione domestica e nel tempo passato con sua figlia. In questo modo i piccoli lettori e lettrici possono da subito vedere le cose con altri occhi e, attraverso Viola, riflettere su cosa è davvero “normale”. Devo ammettere però che a quattro mesi dall’uscita del libro ci sono anche tanti genitori tra i lettori e molti mi hanno scritto che lo leggono insieme ai loro figli e figlie e questo mi fa molto piacere.
Qual è lo stereotipo che ti dà più fastidio?
Io credo che gli stereotipi siano tutti gravi, perché limitano le nostre potenzialità negando la nostra unicità, al di là di schemi prefissati. Quelli di genere però li trovo particolarmente fastidiosi perché il sesso – inteso come maschio o femmina – rischia di essere interpretato come un destino in grado di orientare tutta la nostra vita, dai giochi alle scelte scolastiche prima e professionali poi. Ma chi l’ha detto per esempio che i maschi non possano piangere perché “devono essere degli ometti”, dunque che non debbano o non possano avere confidenza con la loro parte emotiva, pena essere considerati delle “femminucce”? Perché i bambini, a differenza delle bambine, vengono educati a proteggersi dalle proprie fragilità e a non mostrare apertamente i loro sentimenti? La sensazione è che stiamo insegnando ai maschi ad essere “machi”, non a diventare uomini. Un insegnamento non solo dannoso, ma potenzialmente anche pericoloso nelle relazioni interpersonali e nei rapporti sentimentali.
Per riassumere, un consiglio che vorresti dare ai genitori?
All’interno della famiglia, che è il primo luogo di interazione sociale, il mio consiglio è di allearvi tra di voi, genitori, e giocare – al posto che subirli – con i ruoli di coppia. Per esempio: sfatiamo il mito che papà non sappia cucinare, o che la mamma non sappia usare il trapano. Mostriamo come, anche in famiglia, sia molto meglio agire sulla base delle reciproche attitudini, piuttosto che comportarci come gli stereotipi sociali richiederebbero. L’esempio è il miglior modo di apprendimento, e la sola maniera per crescere individui che abbiano sempre il coraggio di difendere il diritto più importante di tutti: quello di essere se stessi, senza farsi dire dagli altri come dovrebbero essere o come dovrebbero comportarsi.