Nello sport si scelgono i talenti, perché nelle aziende no?

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Photo by Jan Huber on Unsplash

Una cosa che si impara praticando sport è che le nazioni che hanno i maggiori successi in una determinata disciplina, sono quelle che hanno una base più ampia di praticanti fra i quali cercare i propri talenti. Questa base ampia genera grande interesse nelle persone, veicolando il lavoro di allenatori e talent scout che ben conoscono i ruoli sportivi e le caratteristiche necessarie per ricoprirli al meglio. Questo tipo di conoscenza permette una ricerca di talenti priva di stereotipi legati a etnie o caratteristiche culturali, bensì basata sulla selezione di capacità tecniche, tattiche e fisiche misurate sulle reali performance e sulle “giocate” di ognuno. Una scelta che valorizza le unicità e le differenze di ogni individuo portando squadre al successo grazie all’unione delle potenzialità dei singoli.

Il mondo del lavoro raccoglie spesso spunti dalla metafora sportiva, ma appare alle volte ancor cieco nell’eliminare alcuni pregiudizi, limitando opportunità di selezione e crescita realmente virtuose e vincenti.

Sebbene appaia evidente che allargare la base di scelta porterebbe ad un naturale aumento dell’opportunità di trovare e crescere dei talenti, i preconcetti sul genere, sull’età, sulle etnie e su innumerevoli altri aspetti, per quanto combattuti in superficie, ancora limitano percorsi aziendali che sarebbero virtuosi per singoli ed organizzazioni.

La comparsa della figura del diversity manager, nata con la responsabilità di ideare, creare e realizzare piani per promuovere il valore della diversità all’interno delle organizzazioni, sembrava poter dar sostegno alla direzione risorse umane anche in questi aspetti. In molte situazioni, per fortuna non in tutte, è però risultata un “nice to have” per l’immagine che fornisce, piuttosto che un ruolo che genera un reale vantaggio competitivo all’organizzazione e alla strategia d’impresa.

Promuovere una cultura dell’inclusione all’interno delle aziende e valorizzare le unicità dei singoli sono obiettivi che impattano contro pregiudizi culturali molto difficili da sradicare; il successo del percorso deve scaturire dalla dimostrata evidenza del vantaggio che una sana cultura della differenza può generare all’interno dell’organizzazione.

E’ compito del diversity manager prendersi la responsabilità di sponsorizzare una puntuale mappatura di ruoli e competenze necessarie per ricoprirli, deve pretendere dalla direzione risorse umane processi di selezione basati su concreti e precisi strumenti di valutazione delle skill individuali che palesino i gap tra il desiderato e l’agito dai candidati, deve diventare lo sponsor del valore delle differenze individuali veicolando percorsi di carriera basati sull’unicità dell’individuo nel ruolo che ricopre. Solo così, facendosi garante delle scelte fatte assieme alla direzione del personale, può superare lo stereotipo di genere o culturale; solo dando evidenza e creando consapevolezza del valore delle scelte fatte può impedire la caduta in pregiudizi ormai obsoleti.

Leggere le differenti caratteristiche richieste per coprire un ruolo e trovare il modo di mapparle nei candidati è l’unica strada, per valorizzare le differenze di ciascuno, per motivare le persone portandole verso un ruolo che appartiene loro, per oggettivare una scelta che ancor troppo spesso risulta solo soggettiva. Questo metodo non è assolutamente nuovo, ma troppo spesso viene trascurato o lascia spazio alle prassi, alle consuetudini e al sostegno di scelte “politiche”.

Con una corretta valutazione e valorizzazione delle risorse la differenza può diventare la migliore amica della diversità. Proprio giocando su un campo differente, quello delle competenze individuali, ed eliminando qualunque altro tipo di scelta apriamo la strada alle affascinanti ed uniche particolarità di ognuno. Solo il legame tra queste caratteristiche ed i ruoli ricoperti sostengono una scelta di merito, una scelta che facilita la motivazione al lavoro condotta dalla maggior semplicità con cui ogni giocatore della squadra raggiunge i propri successi sostenendo quelli del gruppo. Solo riconoscendo davvero il valore dato da queste differenze possiamo superare l’impatto negativo di quelle legate a finti stereotipi e preconcetti.

Pensate che la nazionale di calcio sarebbe arrivata a vincere la coppa nel 2006 con tutti giocatori d’ordine come Cannavaro, De Rossi e Barzagli, ma senza la cattiveria di Gattuso, la magia di Pirlo, la leadership di Buffon, la freddezza nei rigori di Grosso e la guida di un condottiero come Lippi che le sapesse individuare e valorizzare?

  • Daniele Novelli Casarelli |

    La meritocrazia questa sconosciuta, forse l’ultimo baluardo sono rimaste le start up, almeno vi troviamo giovani volenterosi e che si rimboccano le maniche, oltre ad avere buone basi!

  • Cristina |

    La cultura dello sviluppare le diversità deve necessariamente passare prima per il riconoscerle ed accettarle, e poi pure “amarle”. C’è ancora troppa paura, troppa ignoranza e troppi manager che preferiscono dei Mini-Me (come il Dottor Male in Austin Power) perché il primo criterio è la gestibilità e non l’eccellenza.

  • Franca |

    Non siamo ancora pronti per questa figura che dovrebbe lavorare, si’ in sinergia con le figure aziendali, ma essere indipendente e senza condizionamenti nelle scelte. Ancora oggi, laddove e’ stata istituita (solo per dare parvenza di modernizzazione), padroneggia la scelta del potere forte e non del reale merito. Sponsorizzare figure senza spina dorsale affinche’ possano essere manovrate, sembra divenuta la normalita’.

  • Serena |

    Buongiorno Jacopo. Il suo articolo introduce molteplici ed interessanti spunti di riflessione. Dopo 3 anni all’estero in un’azienda che si vanta della internazionalità delle sue risorse ma poi cerca di arginare e isolare quelle più talentuose e complesse da gestire, devo dire che concordo pienamente con lei. Il successo sta nel trovare i giusti elementi, la perfetta amalgama, e nella grande capacità di gestione di tali elementi da parte del mamager o team leader che sia.
    Una squadra composta da elementi “fotocopia” non permette di esplorare tutte le potenzialità disponibili. Purtroppo oggi molti manager non hanno lo spirito, le competenze e quel pizzico di intuito e voglia di mettersi in gioco, necessari per comprendere ed applicare questa strategia.
    Ma, come si dice, la speranza è l’ultima a morire.

  • chicca Pancaldi |

    E’ presto detto: perché i talenti metterebbero in evidenza le mancanze ed inadeguatezze dei superiori, quindi per loro è molto meglio scegliere dei mediocri per continuare a galleggiare… Scusate la franchezza ma è esattamente così!

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