Cara Alley, quando si è vittima di bullismo parlarne è l’unica via d’uscita

Cara Alley, mi chiamo Licia, sono una donna di 50 anni e sono mamma di tre figli: una ragazza di 19 anni, un bambino di 12 anni e una bambina di 11 anni. Scrivo questo mio pensiero perchè sono molto preoccupata del mondo in cui i miei figli vivono e dei figli di altre mamme come me, che ogni giorno sperano in cuor loro che non possa mai succedere nulla di grave ai loro ragazzi e alle loro ragazze.

Sento e leggo ogni giorno notizie tragiche di ragazzi e ragazze vittime di bullismo e penso a quello che succede nelle scuole e ripenso a quello che è successo a me, quando ero una ragazzina, e a quello che è successo a mia figlia Ginevra. Avevo 11 anni e frequentavo la prima media, ero una ragazzina semplice, ancora una bambina. Mi capitò di prendere i pidocchi (ai tempi non c’erano i prodotti che ci sono oggi, ricordo grandi lavaggi con aceto) e mia mamma mi portò a tagliarmi i capelli cortissimi. A scuola delle ragazze più grandi di due anni mi presero di mira: mi misero seduta su una sedia, mi legarono, mi insultarono, mi sputarono in testa per far morire i pidocchi, dicevano. Iniziarono a chiamarmi “pidocchio diabolico e fetoso”, io ero terrorizzata e umilata, volevo sparire. Nessuno intervenne, io non lo dissi a nessuno, avevo paura di loro. Talmente paura che le invitai a casa mia, sperando di farmele amiche per non doverle più temere, ma non fu così. Vennero da me, aprirono la gabbia del mio canarino, che scappò via. Rubarono alcuni oggetti d’oro dei mie genitori e quello, che pareva il punto più basso, fu la svolta.

A quel punto riuscii a raccontare tutto, i miei genitori hanno denunciato il furto, hanno sostenuto me, mi hanno fatto capire che potevo e dovevo reagire, che non dovevo avere paura e che a comportarsi male erano loro, non ero io a essere sbagliata. Parlare, aprirmi, raccontare fu la mia salvezza, quello che mi ha permesso di superare quei momenti e diventare la donna che sono oggi.

Molti anni dopo, però, con la nascita dei miei figli la paura è tornata, sottile. La paura che qualcosa di simile potesse accadere anche a loro e che io non avessi il potere di proteggerli, di impedirlo. Ma cercavo di tenerla per me, non volevo che le mie ansie diventassero le loro, non volevo che una mia brutta esperienza li condizionasse. Poi, quando mia figlia Ginevra aveva 9 anni, iniziò a cambiare comportamento in casa. Era silenziosa, non scherzava e rideva, sembrava triste e preoccupata, ma non mi diceva niente. A un certo punto iniziò a bagnare il letto di notte, senza neanche accorgersene. Stava male, ma non riusciva a parlarne. Alla fine, pian piano, si aprì e mi disse che non voleva più andare a scuola: un gruppo di compagni la prendeva in giro ogni giorno, la isolava, le diceva che aveva una malattia infettiva e quindi tutti dovevano starle lontani. Lei si sentiva sola e aveva paura che oltre a isolarla le facessero del male. Ne parlai con le maestre che non si erano accorte, presero subito in mano la situazione, intervennero in classe e i suoi compagni, alla fine, capirono e le scrissero una lettera per scusarsi.

Avevo raccontato solo a poche persone queste storie, ma credo che non serva tenerle nascoste, perché sono convinta che sia utile condividerle, parlarne insieme. Lo pensa anche Ginevra, che ha condiviso il mio desiderio di scrivervi. Perché serve parlare di rispetto reciproco, di quanto sia bella e preziosa e ricca la vita, che non vale la pena sprecarla o farsela rovinare così. Vale la pena, sempre, chiedere aiuto, parlare, perché ci sono persone pronte a capire, ad aiutare, ad ascoltare. Mai isolarsi, mai rintanarsi nella sofferenza.

Sento che dobbiamo fare qualcosa noi, per primi, come adulti, come genitori, come educatori, perché nessun ragazzo, nessuna ragazza debba sentire mai più di non valere abbastanza.

Grazie di cuore per avermi ascoltata.

Licia Antonacci

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