C’è bellezza nell’essere madre, ma non è quella che ci hanno raccontato

Nascite al minimo storico in Italia. Si stima che il 22,5% di donne italiane nate a fine anni Settanta concluderà il periodo riproduttivo senza figli. Tra loro, più di una su quattro sembrerebbe non averne mai voluti, di figli. Sono valori record e in continua crescita, più che raddoppiati rispetto alle nate negli anni Cinquanta.

Per una gran parte di donne, madri e no, sono facilmente intuibili le motivazioni sotto a questi numeri. Carico di lavoro, responsabilità, fatica, carriere lavorative bloccate, diminuzione degli stipendi con evidenti ripercussioni sul futuro e sulle pensioni. Da quando il vaso di Pandora è stato scoperchiato e si è iniziato a parlare di che cosa comporta veramente per una donna la scelta della maternità, la domanda non detta che serpeggia nella mente di una giovane è forse una sola e legittima: “ma chi me lo fa fare”?

L’orologio biologico inceppato

A poco serve pungolare il presunto orologio biologico: ormai sappiamo che è un luogo comune, non esiste niente che biologicamente spinga le donne a desiderare un figlio, se non il costrutto sociale che impone loro di farlo. Prima del 1978 “orologio biologico” era una locuzione che per la scienza medica stava a indicare i ritmi circadiani dell’uomo e il suo adattarsi allo scorrere del tempo, del giorno e della notte. È stato un giornalista, in un articolo di costume del Washington Post, a creare la metafora legata al presunto bisogno femminile di generare figli.

Ancora meno utile è fare appello alle gioie che può dare l’amore per un figlio. Facciamocene una ragione, non a tutti piacciono i bambini. E in ogni caso, questo lo dico da madre, l’amore che provo per mio figlio e l’amore che da lui ricevo, sono una parte importante della mia vita, ma non mi identificano come persona. Il momento in cui ho cominciato a vivere meglio la maternità, quello in cui ho cominciato a vedere la luce, coincide col momento in cui ho capito che io non ero morta: esistevo ancora, non era tutta lì la mia vita.

La retorica del figlio che ci completa come esseri umani (come donne…) non è più così efficace. Perché ormai è sempre più chiaro che è la copertina di un libro che poi racconta la favola del sacrificio assoluto e indefesso, ricompensato dalla gioia dell’amore materno. In pratica essere madri ci rende l’archetipo del sacrificio, ma è anche la gioia più grande della nostra vita. Un bel salto mortale emotivo.

Le donne sanno cosa vogliono

Il fatto che queste retoriche non funzionino più, è il risultato di un lavorìo costante di presa di coscienza e di condivisione che le donne stanno facendo da decenni. È così che la figura socialmente eccentrica della zitella (donna non sposata e senza figli) sta via via lasciando spazio a un esercito di donne childfree solidamente certe delle proprie scelte, sicure di sé stesse, piene di vita e relazioni affettive (amicali, non solo di coppia). Le donne sanno cosa vogliono, molto più di quanto continuano a insinuare certe maldestre campagne per la fertilità, la natalità e quant’altro. Non ci sono vuoti da colmare con un bonus. E d’altra parte è lecito chiedersi: cosa possono fare la politica e la società per dialogare davvero con le donne?

La maternità sembra essere una questione sociale solo quando è assente, quando mette in discussione lo schema dentro cui abitiamo praticamente da secoli. Quando si configura come negazione, che si tratti di aborto o di scelta childfree. Non pervenuto ancora un approccio sistemico a tutte le problematiche che limitano fortemente la realizzazione umana e personale delle donne dal momento in cui diventano madri: la maternità interferisce direttamente con l’accesso femminile al mercato del lavoro, mentre la paternità spinge i padri a lavorare di più; il 74% del lavoro di cura grava sulle donne, e anche quando contribuiscono al reddito e al lavoro tanto quanto gli uomini non diminuisce di molto; a 15 anni dalla maternità le donne guadagnano circa 5.700 euro in meno ogni anno rispetto alle donne che non hanno figli. Per quanto ancora faremo finta di niente, e continueremo a pensare di poter ripagare questo sacrificio con la moneta dell’amore materno?

L’amore materno non è una moneta di scambio

Alle donne continuiamo a chiedere di fare figli, sostenendo che sia nel loro destino biologico, senza offrire alcun appiglio o riparo alla caduta che comporta la maternità. Mentre è su altro che dovremmo chiamarci a riflettere.

La sacrosanta decostruzione che ha compiuto il femminismo ha avuto dei risultati importanti: ha sciolto l’identificazione tra sessualità e procreazione, ha aperto la strada femminile per autodeterminarsi nella sfera sessuale (e non solo, ovviamente), ma ha forse contribuito a rendere la maternità una sorta di tabù. Essere madre può essere un desiderio femminile, come può non esserlo. Anche qui c’è autodeterminazione. Ma c’è dell’altro, su cui oggi siamo chiamate a riflettere.

Come definiamo la maternità, all’interno delle nostre vite di donne? Da un lato è una caratteristica biologica che rinvia a una condizione di subalternità, ribadisce la dipendenza dalla natura, e in una società che ancora non è in grado di creare condizioni paritarie, è un limite. Eccome se lo è.

La maternità è anche altro

Dall’altro lato, la maternità è anche altro. Costituisce un aspetto, un tratto permanente e distintivo dell’individualità. È qualcosa che, quando accade, porta delle prepotenti onde di cambiamento, e quanto più viviamo la genitorialità da vicino, quanto più stabiliamo un contatto intimo ed empatico con i bambini, tanto più deflagrante e illuminante può essere questo cambiamento. Diventare madre vuol dire anche diventarsi madre, incontrare il proprio sé lì dove è più vulnerabile e imparare a costruire giorno per giorno una forza nuova e sconosciuta che ci ridefinisce.

È un’occasione, un’opportunità, e ha a che fare con l’individuo, non con il suo ruolo sociale. Forse è di questo che dobbiamo parlare, oggi. Dopo che abbiamo decostruito i ruoli, smontato gli archetipi, smantellato le gerarchie, forse è da qui che deve ripartire l’autocoscienza. Anziché polarizzare il femminile in uno sterile dibattito tra madri sì e madri no, possiamo rompere il tabù e raccontare la bellezza della maternità, quella che non è stata detta, quella privata, intima, viscerale, fuori da ogni misticismo o simbolismo culturale e sponsale.

Una cosa è certa: il vecchio ordine sta collassando, ed è il momento per guardare alla maternità con uno sguardo privato e uno sguardo politico. Dovunque ci portino queste riflessioni, la politica e la società non possono esimersi dal creare condizioni paritarie affinché nessuna donna debba subire la maternità come una limitazione, un’aspettativa smisurata, un intento sacrificale. Solo così le donne saranno davvero libere. Di non essere madri, certo, ma anche di esserlo, senza morirne.

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  • Serena |

    Si, la proposta consisteva nel pagare una miseria 8 anni una donna per stare a casa a fare la calzetta. Senza contributi per la pensione, senza l’obbligo di acquisire qualche competenza da poter sfruttare una volta finiti gli otto anni. La soluzione era quella che dopo otto anni doveva fare un altro figlio. E se non arriva? Se il matrimonio è fallito? Se il compagno è morto?
    Meno male che la legge non è passata.

  • Marcello Baldini |

    Non è assolutamente vero che le donne non vogliono avere figli.
    Parlo, perché ho parlato con molte di loro se potessero avere possibilità li farebbero.
    Vi è il Popolo che ha fatto una proposta di legge e presentata in Parlamento, ma non discussa.
    Perché parlava che la donna potesse decidere di fare avere un figlio e poter stare a casa per crescere.
    Ripeto la SCELTA SPETTA ALLA DONNA, MADRE, MOGLIE.
    Siamo in piena ideologia femminista, perché proposta da uomini se fosse proposta da donne non saprei .
    Donne che si rappresentano per loro non esistono sono sempre influenzate dalla corrente FEMMINISTA
    LA SCELTA NON TOGLIE TUTTE LE ALTRE OPZIONI ESISTENTI.

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