Violenza, le “sopravvissute” si raccontano: quando la vita torna a colori

Ogni storia di violenza è a sé, ma tutte le storie si parlano. Ricorre sempre la “spirale”, lo schema perverso che somiglia a un gorgo: l’innamoramento, i primi segnali di aggressività, l’isolamento dalla famiglia e dalle amicizie, il crescendo di umiliazioni, divieti e sopraffazioni. E poi gli scoppi d’ira, gli schiaffi e i pugni, seguiti dalle fasi di “perdono”, con gli atteggiamenti premurosi e affettuosi del carnefice, che durano sempre meno, e il progressivo annientamento delle partner. In “Sopravvissute” (Castelvecchi, 2022), Flaminia Saccà e Rosalba Belmonte hanno deciso di “intervistare le donne sopravvissute alla violenza. Per restituire loro la voce. Un racconto soggettivo della violenza vissuta non più offuscato dalle mediazioni giornalistiche e giuridiche”.

Il volume è il prezioso corollario del lavoro di ricerca che Saccà, professoressa ordinaria di Sociologia dei fenomeni politici alla Sapienza Università di Roma, ha coordinato da capofila del progetto Step (“Stereotipo e Pregiudizio. Per un cambiamento culturale nella rappresentazione di genere in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nel racconto dei media”, si veda il sito ufficiale), realizzato dall’Università della Tuscia (dove Belmonte è ricercatrice in Sociologia dei fenomeni politici) in partnership con l’associazione Differenza Donna presieduta da Elisa Ercoli. Un progetto che continuerà ora con la nascita dell’Osservatorio “Step – Le parole giuste” in collaborazione con Roma Capitale.

Se Step ha permesso di dimostrare, dati alla mano, con l’analisi di ben 16.715 articoli di 15 testate per tre anni e 282 sentenze, quanto la narrazione della violenza sulle donne sia distorta tanto nel linguaggio giornalistico quanto in quello giudiziario, “Sopravvissute” compie quello che le autrici definiscono “un atto politico”. Restituendo alle vittime la dignità di soggetti attivi nella costruzione della rappresentazione sociale della violenza subita, si mettono a nudo i rapporti di potere e di dominio interni alla nostra società e la violenza smette di essere sminuita, “normalizzata”, derubricata a conflitto privato, a lite di coppia. Diventa finalmente il fenomeno sociale che è: inquadrata in un comune orizzonte sociale di significato, si svela come lo strumento attraverso il quale si perpetra il controllo dell’uomo sulla donna nella relazione affettiva.

Il personale è politico, dunque, mai come nella violenza di genere. E questo personale, descritto in dieci storie attraverso interviste in profondità svolte in forma anonima, non finisce mai di sconvolgere. Non soltanto per la crudezza dei maltrattamenti fisici e psicologici, per l’orrore scambiato per amore, ma anche per la linfa che li innerva: il fiume dei pregiudizi e degli stereotipi sessisti che esonda in chi la violenza la agisce, nelle famiglie di chi la subisce, nella rete amicale, e spessissimo, purtroppo, nelle istituzioni che dovrebbero esserne scevre per poterla intercettare e combattere.

Le donne finiscono così per essere vittime tre volte: della violenza subita, della rappresentazione colpevole che ne dà la stampa e anche non di rado l’ambito giudiziario (vittimizzazione secondaria) e di una giustizia che spessissimo viene depotenziata proprio dalla narrazione distorta. Una giustizia dove si ribaltano i ruoli processuali, costringendo la donna a preoccuparsi di dimostrarsi credibile, vittima “ideale”, santa. Oppure dove, in nome di una “malriposta idea di bigenitorialità”, si ricorre a costrutti ascientifici come la sindrome di alienazione parentale per colpire le donne in ciò che hanno di più caro: i figli.

“Sconvolge il quadro impietoso dei ritardi, delle falle, quando non dei veri e propri tradimenti da parte delle istituzioni e delle figure professionali preposte ad aiutare le donne a uscire dalla violenza”, ha sottolineato Saccà durante la presentazione del libro promossa a Roma il 16 gennaio dall’associazione culturale Ideerranti, in una affollata libreria Spazio Sette (qui il podcast realizzato da Eleonora de Nardis per RadiOsa, la radio della Casa internazionale delle donne). Tante studentesse e studenti in sala, molta commozione, pochi giorni dopo l’ennesimo femminicidio annunciato: quello dell’avvocata 35enne Martina Scialdone, freddata a colpi di pistola dall’ex compagno Costantino Bonaiuti davanti a un ristorante, nell’impotenza del fratello di lei e degli avventori del locale.

Sorprende anche l’omertà, la difficoltà che incontrano le donne “a trovare aiuto e solidarietà nei vicini di casa, nei colleghi e persino nei familiari”. Per questo i loro racconti, ha spiegato Saccà, “ci impartiscono una lezione importante, una pedagogia civile che dovrebbe guidare la condotta di ogni cittadina e cittadino che si renda conto che un’amica, una vicina, una collega o anche un’estranea stia subendo una qualsiasi forma di violenza”.

Dire basta è possibile, e le storie raccolte nel volume lo dimostrano. Il ruolo dei centri antiviolenza è ritenuto fondamentale: sono le operatrici e le avvocate a supportare le donne nel percorso più difficile, quello che le porta a riconoscere la violenza e a riconoscersi come vittime, e non come complici o addirittura come cause di ciò che accade, perché la colpevolizzazione è una delle armi più utilizzate dai violenti. Elisa Ercoli, che firma l’appendice “Dal Movimento femminista alla nascita di Differenza Donna”, ha esplicitato qual è stato il merito storico prima dei gruppi di autocoscienza e poi dei centri: aver rintracciato e continuare a rintracciare nella violenza un’“esperienza diffusa” che riguarda tutte le donne, espressione di quel sistema patriarcale “che continua a relegare le donne in ruoli di genere tradizionali, segnati come destino sin dalla nascita”.

Nei luoghi della relazione tra donne, quali sono i centri antiviolenza, si è svolto quel paziente lavoro di decostruzione degli stereotipi che permette di accogliere la vittima “senza spostare su di lei la benché minima ombra di responsabilità della violenza subita”. Questo è il valore inestimabile dei centri, la premessa indispensabile per la rinascita che altrove manca. Ma senza una solida alleanza con le istituzioni non si va lontano. Lo ha detto a chiare lettere Saccà e lo ha riconosciuto Eleonora Mattia, consigliera regionale del Lazio appena rieletta nelle file del Pd, avvocata, da sempre in prima linea sui diritti e autrice di un libro importante sul coraggio delle donne durante la pandemia.

I passaggi più emozionanti di “Sopravvissute” sono i momenti in cui le protagoniste si accorgono di aver riconquistato la libertà. “Per la prima volta io ho visto i colori”, dice la signora M. ricordando sé stessa davanti a un campo di papaveri rossi. “Ho sentito i profumi. Ho ricominciato piano piano a vivere. I profumi, il profumo del pane, come se non ci fosse mai stato”. Quello era il periodo in cui la figlia, interrogata dal giudice, alla domanda “Che cosa vedi di cambiato in tua mamma da quando papà non viene più a casa?”, aveva risposto: “Mamma adesso ride”. La signora G., finita giovanissima in un giro di prostituzione coattiva transnazionale, dopo l’uscita dalla violenza si descrive così: “Adesso sono più consapevole di tutto quello che faccio, di quello che dico, delle mie azioni. Adesso sono una donna”.

È il potere della parola, la forza immensa della parola quando viene creduta. La liberazione dalla violenza non è mai semplice: è il risultato di uno sforzo enorme per riconquistare la propria vita e ricostruire la propria identità. Per questo è sbagliato continuare a chiamare “vittime” coloro che riescono a uscirne. Non sono soggetti passivi, deboli, bisognosi di compassione. No. Sono sopravvissute. Combattono per sé e per le altre. E finalmente si raccontano.

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Titolo: “Sopravvissute”
Autrici: Flaminia Saccà e Rosalba Belmonte
Editore: Castelvecchi, 2022
Prezzo: 22 euro

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