Giustizia ingiusta: storie di madri eliminate e di figli sottratti dallo Stato

Eliminare le madri per “salvare” i figli. Ci sono storie dell’orrore che si ripetono identiche nei tribunali d’Italia, nell’indifferenza o, peggio, nell’ignoranza generale. Ci sono testimonianze audio e video di bambini urlanti, straziati, letteralmente strappati dalle braccia della loro mamma dalle forze dell’ordine e dagli assistenti sociali per essere affidati al padre o trasferiti in casa famiglia. Con “accuse” che se non vedessimo scritte nero su bianco negli atti sarebbero incredibili: non madri violente, disagiate, incapaci di accudire, ma madri vittime di violenza domestica, spesso riconosciuta in sede penale, che nel civile finiscono per essere ritenute “alienanti”, “malevole”, “ostative”, “simbiotiche”. In un ribaltamento illogico, diventano loro le carnefici allontanate con la forza da ciò che hanno di più caro al mondo: i figli. Alcune di loro non li vedranno più.

A raccontare con coraggio e precisione questo cortocircuito giudiziario, e le ragioni politiche e legali che lo innescano, è il libro-inchiesta “Senza madre. Storie di figli sottratti dallo Stato” (Edizioni Scientifiche Magi), frutto del lavoro di dieci tra giornaliste, ricercatrici e attiviste: Flavia Landolfi e Livia Zancaner, rispettivamente del Sole 24 Ore e di Radio24, contributor di Alley Oop, assieme a Clelia Delponte, Franca Giansoldati, Silvia Mari, Assuntina Morresi, Monica Ricci Sargentini, Nadia Somma, Paola Tavella, Emanuela Valente.

Attraverso vicende note e meno note della cronaca, analisi, documentazione e riflessioni, come quella sul pensiero femminista intorno alla maternità nella postfazione firmata da Monica Lanfranco, le autrici dimostrano come si sia andato scrivendo nelle perizie dei consulenti tecnici d’ufficio, ricopiate spesso di sana pianta nelle ordinanze e nei decreti dei giudici civili, una sorta di nuovo vocabolario del patriarcato più feroce. D’altronde, ce lo hanno insegnato prima George Orwell e poi Margaret Atwood: ogni distopia ha bisogno di una neolingua.

La neolingua della violenza istituzionale nei confronti delle madri ruota attorno alla bigenitorialità come diktat ideologico da perseguire a ogni costo e alla teoria, sconfessata dalla comunità scientifica e ritenuta priva di fondamento dalla stessa Cassazione, della “alienazione parentale”, ombrello sotto il quale si prescrive la “riprogrammazione” dei bambini perché imparino ad amare padri da cui sono terrorizzati, cappio in nome del quale si sono compiuti autentici scempi. Come quello, celebre perché finito in Tv, di Leonardo, prelevato da agenti in borghese davanti alla sua scuola elementare a Cittadella (Padova). O come l’omicidio a coltellate nel 2009 del piccolo Federico Barakat da parte del padre durante un incontro “protetto” ordinato dai giudici, nonostante le richieste di aiuto e le denunce della madre sulla pericolosità dell’uomo. Lascia l’amaro in bocca soltanto scrivere l’aggettivo: chi ha protetto Federico, ucciso a 8 anni da solo in una stanza con il suo assassino? Chi protegge tutti gli altri Federico che vivono nell’incubo della separazione forzata dalle loro mamme?

Come nota nella prefazione Francesca Ceroni, magistrata della Procura generale della Cassazione, “è difficile capire l’origine di questa mattanza”, è arduo comprendere “chi predica con successo, di fronte agli occhi increduli dei più, che l’unica chance di crescita equilibrata per i figli di queste madri – da eliminare – è la separazione da loro a qualunque costo”.  Sarebbe ridicolo, se non si traducesse in atti giuridici, pensare che due genitori siano sempre e comunque meglio di uno, anche “quando si fa della prepotenza, della sopraffazione o della indifferenza la regola nelle ‘relazioni strette'”.

Suona assurdo credere che un padre violento possa essere un buon padre, addirittura tanto buono da richiedere l’allontanamento della madre che lo denuncia. Eppure questo è ciò che accade, grazie a molti giudici che “hanno abdicato al loro ruolo – sottolinea Ceroni – e hanno messo queste vite in mano ai consulenti, che seguono percorsi metagiuridici, spesso teorie ascientifiche e troppe volte si disinteressano delle ragioni per le quali un bambino si rifiuti ostinatamente di vedere il padre, sul pre-giudizio che sia manipolato dalla madre”.

Nell’introduzione, le dieci autrici ricordano come l’invito alle donne a denunciare la violenza, accompagnato dalla promessa “non resterete sole”, spesso “è diventato una trappola, una rovina. Sia che il violento sia processato o meno, condannato oppure no, la relazione materna in molti tribunali è messa sotto accusa, posta sotto una lente di ingrandimento maligna, pregiudiziale, persecutoria”.

Un processo alle madri, per nulla giusto. “L’elefante nella stanza – scrive Landolfi – è innanzitutto il ribaltamento del principio di non colpevolezza, architrave del diritto moderno, spina dorsale dello stato di diritto. Per il solo rifiuto del bambino a frequentare l’altro genitore le madri si trovano sotto accusa a dimostrare la propria innocenza. Ma non solo: nei procedimenti non si indagano più ‘i comuni mezzi di prova’, quelli in uso in tutti i procedimenti civilistici e penalistici. Soppiantato dalle Ctu psicologiche – a carico delle parti – l’habeas corpus sembra scomparire inghiottito da una prassi arbitraria e aleatoria. In questo ribaltamento, invece di indagare le ragioni del rifiuto nella relazione tra bambino e genitore ‘respinto’, la madre viene messa sotto accusa senza alcuna prova”.

A scorrere i nomi e i vissuti, nessuno può esimersi dal domandarsi se sia tutto proprio come lo raccontano, se sia possibile che un magistrato decida soluzioni così tranchant come la collocazione di un minore in un istituto senza ragioni più che valide. Ci hanno insegnato che la sospensione dell’incredulità è la prima regola del lettore che voglia avvicinarsi alla fiction. Ne serve una dose ancora più massiccia per accostarsi alla realtà di ciò che succede nei nostri tribunali dei minorenni, alla bigenitorialità sancita dalla legge 54/2006 trasformata in un inferno per le mamme e i bambini e in “una risorsa per uomini rancorosi, maltrattanti, spilorci”, come scrive Tavella, che aggiunge: “Sono quasi affascinata dalla rivelazione della misoginia nella sua nuda radice: l’odio, la paura, l’invidia per le donne, il cui corpo può creare la vita, la cui libertà decide se una gravidanza sarà portata a termine oppure no, il cui amore è alla base di ogni crescita e fioritura umana. L’attacco al corpo generativo femminile non è mai stato così violento”.

Sul caso di Barakat, l’apice della mostruosità, spese parole di fuoco il Nobel Dario Fo: “Siamo un popolo di disinformati, di uomini e donne distratti, che voltano la faccia davanti alle denunce di una madre che vuole proteggere un figlio. Siamo un popolo che ancora oggi ignora questa storia orribile – che non vuole ammettere di aver lasciato solo Federico in quella stanza – e di giudici che preferiscono nel giudizio lasciar correre e iscrivere il dramma in una casualità senza colpevoli. Ma è ora di accettare la verità che ci indica come tutti colpevoli davanti a queste tragedie, perché non ci siamo lasciati coinvolgere, non ci siamo interessati di quanto accaduto e la comunità ha preferito ignorare”.

“Senza madre” colma ora quella disinformazione, quella distrazione di massa cui ha cercato negli anni scorsi di porre rimedio il lavoro della commissione d’inchiesta del Senato sul femminicidio del Senato guidata da Valeria Valente. Rivela il vuoto enorme e palese – legislativo, amministrativo, giudiziario, sociale e culturale – in cui queste vicende trovano il loro fertilizzante. Un buco nero che si nutre del pregiudizio che impedisce alle donne di essere credute, che rivittimizza le vittime di violenza, che dipinge le madri angosciate come nevrotiche, accudenti, iperprotettive, in una ridda di sinonimi utili soltanto a cambiare i connotati alla realtà.

È dentro questa cortina fumogena, creata da un sistema perverso che si autoalimenta grazie alla distorsione dei fatti, che matura nelle consulenze e nei tribunali la derubricazione della violenza a conflitto. La distinzione tra vittime e carnefici si annienta fino a renderli indistinguibili, gli stereotipi sessisti si riproducono in una spirale perversa inquinando i verbali, le Ctu, gli atti, le sentenze. Il fatalismo rimpiazza la responsabilità, scatenando negli adulti una sorta di cecità collettiva, tra malafede e indifferenza, a danno dei più piccoli.

“Senza madre” è una galleria degli orrori e degli errori, che inquieta, scuote, interroga. Fa quello che il femminismo dovrebbe fare sempre: smascherare le vecchie e nuove forme di oppressione nei confronti delle donne, difendere la dignità della persona, pretendere una giustizia davvero giusta. Mai come stavolta, in nome e per conto del bene più prezioso per ogni comunità: le bambine e i bambini. La vita, il futuro.

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Titolo: “Senza madre. Storie di figli sottratti dallo Stato”
Autrici: Clelia Delponte, Franca Giansoldati, Flavia Landolfi, Silvia Mari, Assuntina Morresi, Monica Ricci Sargentini, Nadia Somma, Paola Tavella, Emanuela Valente, Livia Zancaner
Editore: Edizioni Magi
Prezzo: 16 euro

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  • Stela Tofan |

    vorrei essere ricontattata

  • Paola Gabrieli |

    Giudici e magistrati non hanno l obbligo formativo in materia. Inoltre tutti gli ordini professionali di dovrebbero indignarsi e contribuire a contrastare il fenomeno.

  • Paola Gabrieli |

    Mi chiedo dove sono gli psicologi e le assistenti sociali e gli ordini rispettivi . Quale obbligo formativo per chi si occupa del fenomeno della violenza di genere e assistita nei consultori, nei comuni, e nei servizi specialistici . Gli operatori formati e coraggiosi contrasterebbero i provvedimenti giurisdizionali spesso invece colludono con il sistema giudiziario diventando complici dell ipocrita istituzionale. Senza parlare dei legali e dei curatori. Occorrere manifestare pubblicamente per protestare e aiutare tante madri e tanti minori che soffrono.

  • Loredana |

    Si tratta di violenza istituzionale su madri ed i loro figli e per quello che mi riguarda di corruzione che da anni coinvolge il tribunale minorile di Venezia

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