I centri antiviolenza al Sud, tra difficoltà economiche e la paura del lockdown

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La panchina rossa di legno spicca sul piazzale proprio davanti alla sede dell’organizzazione di volontariato SAE112 di Termoli, in provincia di Campobasso. È arrivata anche qui, è di un rosso brillante, vivo come la speranza che non si spegne, forte come uno spirito indomabile. Realizzata artigianalmente da un volontario, sarà inaugurata mercoledì 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, con un mazzo di rose gialle. «Questa panchina è un simbolo della nostra vicinanza alle donne vittime di violenza – spiega Matteo Gentile, presidente dell’organizzazione di volontariato – ma anche del nostro impegno come volontari, ponendoci in ascolto e sensibilizzando ad una cultura del rispetto reciproco. Al tempo stesso vuole essere un segno di speranza che proviamo a diffondere nella nostra comunità».

Termoli, cittadina della costa adriatica di circa 33mila abitanti, è dal settembre 2018 il punto di riferimento dell’area del Basso Molise della cooperativa BeFree che gestisce diversi centri antiviolenza e case rifugio in Lazio, Abruzzo e Molise, offrendo servizi come ascolto, colloqui di sostegno e possibilità di accesso a consulenze psicologiche e legali. Qui il lavoro è andato via via crescendo, il numero di donne in cerca di aiuto è gradualmente cresciuto, sebbene questo 2020 abbia segnato un rallentamento e non solo per le difficoltà legate alla pandemia come si potrebbe pensare. «Quest’anno fino ad oggi abbiamo seguito diciotto persone – spiega Sara Fauzia, psicologa che opera nel centro termolese – rispetto alle trentuno del 2019. A causa della carenza di fondi – e di personale – diamo priorità al lavoro diretto con le donne, in molti casi fatto anche di volontariato, e purtroppo in questo modo viene meno il lavoro di sensibilizzazione da fare nei territori e nei piccoli centri, che per noi è fondamentale perché così riusciamo a farci conoscere e a far sapere che ci siamo e quali sono le nostre attività. Nonostante il lockdown e la pandemia siamo riuscite a garantire il servizio, ma per noi non è certamente sufficiente».

whatsapp-image-2020-11-22-at-22-32-44Burocrazia e scarsità di fondi sono le principali preoccupazioni espresse da Maria Grazia Giorgianni, presidente del Centro Antiviolenza Pink Project di Capo d’Orlando, in provincia di Messina che, come altri centri nella regione siciliana, ha dovuto provvedere agli adeguamenti previsti dal D.P.96/2015 per i nuovi standard strutturali ed organizzativi dei Centri antiviolenza, Casa di accoglienza ad indirizzo segreto e Casa di accoglienza per gestanti e madri con figli, standard che permettevano l’iscrizione all’albo regionale, requisito indispensabile per poter partecipare a bandi e accedere a finanziamenti. «Non è stato facile – commenta Giorgianni – perché le nostre esigue risorse consentono appena di sostenere le spese vive e le utenze, ma ce l’abbiamo fatta lo stesso. Diciamo che la questione economica è cruciale per molti dei servizi che svolgiamo e per l’assistenza alle donne vittime di violenza. Mi preme aggiungere un aspetto che non sempre viene affrontato, che è quello della violenza economica, un’ulteriore forma di violenza che muta forma e si adegua alle nuove situazioni, alle nuove circostanze. Ad esempio, stiamo riscontrando che molte donne alle quali è stato riconosciuto il reddito di cittadinanza – donne che si erano già allontanate ma anche donne che continuano ancora a vivere con i loro compagni o mariti –  e che vorrebbero contare su quella somma di denaro, non possono farlo perché viene sottratta mensilmente proprio dal soggetto maltrattante con un ulteriore esercizio di potere che lede la loro persona». La violenza può essere perpetrata in vari modi, dunque, e da questi osservatori emergono nuove drammatiche “tendenze”, che l’emergenza coronavirus ha anche contribuito ad accentuare, in qualche misura: «In questo periodo, in coincidenza con la seconda ondata di contagi, registriamo una costanza di contatti, molti dei quali vogliono accelerare il percorso con noi perché temono un nuovo lockdown e una nuova convivenza forzata con il soggetto maltrattante» conclude.

«Il nostro centro serve un’area che comprende 18 comuni – dichiara l’avvocata Cettina La Torre, presidente di Al tuo fianco Onlus, centro antiviolenza di Furci Siculo, sul versante ionico della provincia di Messina – sia sulla costa che nelle aree interne, un’area che è omogenea e disomogenea allo stesso tempo. Anche per noi le difficoltà economiche sono quelle più pressanti, siamo tutte volontarie e ci autofinanziamo, e abbiamo moltissime uscite anche solo per le spese per la gestione della nostra attività e per la formazione: non ci occupiamo solo di ascolto o di assistenza legale o psicologica, anche di accompagnamento delle donne che assistiamo verso percorsi lavorativi che le facciano guadagnare l’autonomia sperata. Cerchiamo di costruire un piano, un progetto di vita intorno alla donna che deve inquadrare la sua situazione di violenza, riconoscerla e allontanarla. Per fare questo la rete è fondamentale e per fortuna ne abbiamo una che funziona molto bene, grazie ad una Carta dei Servizi, predisposta dalla prefettura con Questura, Procura della Repubblica, Forze dell’Ordine, Operatori Sanitari, Centri antiviolenza». Furci Siculo il paese che il 31 marzo scorso si era risvegliato con la tragica notizia della morte di Lorena Quaranta, studentessa in medicina, strangolata dal compagno Antonio De Pace. «Un momento dolorosissimo – commenta La Torre – non lo dimenticherò mai, era in pieno lockdown. Sono tante le donne che hanno dubbi e difficoltà nel denunciare, che temono ritorsioni o la gogna mediatica che si scatena nei piccoli centri perché la donna ha mandato a monte la famiglia, che faticano di fronte alle difficoltà e alla devastazione dell’iter giudiziario. Ma che quando ritornano a rifiorire, sono le stesse che ti dicono grazie». Il prossimo 2 dicembre si terrà l’udienza preliminare del processo in cui si contesta a De Pace la premeditazione e nel quale il centro antiviolenza si costituirà parte civile.

«Non è tollerabile che le istituzioni si presentino impreparate a fronteggiare un nuovo lockdown – ha commentato Elisa Visconti, Responsabile dei Programmi di ActionAid – in occasione della presentazione del Rapporto su donne e Covid19, i centri antiviolenza e le case rifugio lasciati soli – l’epidemia ci ha dato lezioni che non dobbiamo dimenticare, prima tra tutte il ruolo essenziale dei centri antiviolenza e delle case rifugio nel sostegno territoriale alle donne, che hanno dimostrato una grande capacità di adattamento nel reinventare un modello di intervento rapido che funziona solo con supporti adeguati. È necessario uscire dalla logica emergenziale per creare un sistema forte e duraturo, che funzioni bene in tempi ordinari e molto bene in tempi straordinari. Sarebbe inaccettabile sprecare tempo prezioso. Con la seconda ondata pandemica e con i nuovi lockdown territoriali, i centri corrono il rischio di arrivare al limite delle proprie capacità di sopravvivenza e di resilienza. Oggi è necessario istituire un Fondo di emergenza con risorse aggiuntive e prontamente disponibili e Cabine di Regia locali che garantiscano efficacia e coordinamento per le reti territoriali, senza si rischia di negare alle donne una concreta via d’uscita alla violenza».

Fra i dati diffusi nel rapporto emerge che durante il primo lockdown, quando dopo un iniziale crollo il numero delle chiamate di aiuto al 1522, tra marzo e giugno 2020 è più che raddoppiato rispetto al 2019 con 15.280 richieste (+119,6%). In Lombardia, ad esempio, c’è stata una forte riduzione dello staff nei centri antiviolenza causata dal dimezzamento del numero di volontarie – generalmente di età medio-alta e quindi a rischio contagio – e dalla malattia o messa in quarantena di operatrici. In aggiunta, i Centri sono stati costretti a turni di lavoro estenuanti, come nel caso della provincia di Cremona, che ha esteso la propria reperibilità h24 con risorse umane ridotte del 50%.