Come riconoscere la trappola della violenza psicologica

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Un primo passo per poter costruire una cultura della non violenza è mettersi nei panni dell’altro, eppure questo sembra essere molto difficile, talvolta impossibile, quando si parla delle donne maltrattate. Accade molto più spesso che ci si metta nei panni dell’uomo, del maltrattante. Questa mancata immedesimazione, questa mancata empatia è spesso sostituita dal giudizio, dalla critica, dalla colpevolizzazione. Perché a un osservatore esterno risulta difficile, quasi impossibile, capire come una donna possa vivere, talvolta per anni, accanto a un uomo che la insulta, denigra, controlla, picchia. Più che vittime della violenza maschile, è più facile considerarle come parte del problema, come corresponsabili della loro condizione.Ci chiediamo perché le donne non reagiscono, non perché l’uomo violento maltratta o uccide.

“Le donne non se ne vanno” a causa di una molteplicità di fattori (individuali, relazionali, sociali, culturali e istituzionali) che creano quelle fitte maglie della rete che le blocca nella relazione maltrattante. Tra tutti questi fattori un’attenzione particolare va rivolta al potere paralizzante della violenza psicologica: quella forma di violenza che, per prima, in maniera subdola e senza far rumore, s’inserisce in punta di piedi all’interno della relazione; quella forma di violenza che è responsabile della paralisi delle donne maltrattate, e quindi è causa della loro mancata ribellione. È la violenza psicologica che crea quel terreno in cui il seme della violenza fisica può attecchire, affondare le sue radici e crescere, crescere d’intensità e frequenza in un’escalation che può arrivare anche al femminicidio.

Insulti, urla, un tono di voce minaccioso, ma anche, le critiche mortificanti e le svalutazioni continue con gli incessanti messaggi di essere inutile, incapace, deludente, servono a creare uno stato di tensione ed insicurezza nella partner che è funzionale alla sua sottomissione, al suo soggiogamento. Non vanno dimenticati gli sguardi e i gesti di disprezzo e denigrazione a cui si aggiungono i silenzi ad oltranza carichi di tensione spesso usati come strumento punitivo. Questi atteggiamenti sono tutti espressione, nel quotidiano, di una forma di violenza subdola, strisciante, pervasiva e difficile da individuare. Una violenza, quella psicologica, che le stesse donne, quelle che incontro quotidianamente nel mio lavoro, fanno fatica a riconoscere, minimizzano, giustificano e, ancor peggio, considerano “normale”.

Le parole, non sono mai solo parole; al pari delle percosse, possono causare gravi e profondi danni nella psiche e nell’anima. Danni, però, che non sono immediatamente visibili come i lividi e le ferite lasciati sul corpo dalla violenza fisica. La donna viene denigrata, umiliata, sottomessa, fino ad arrivare all’annullamento della sua capacità di pensiero, di autodeterminazione, d’indipendenza. Fino all’annullamento della sua personalità, del suo Sé, del suo essere “soggetto” e della sua volontà. È questo che imprigiona una donna all’interno di una relazione maltrattante, anche per anni.

“…. Mi diceva sempre che facevo schifo, che ero un mostro e che nessuno avrebbe voluto stare con una donna come me, diceva che dovevo ringraziarlo per avermi sposata perché altrimenti sarei rimasta sola…” (Julia, 32 a.)

“Mi insultava e diceva che ero stupida e non capivo niente. Che il mio cervello era grande come uno spillo…Lo faceva davanti ad amici e parenti, ma anche per strada. Non importava chi ci fosse…. ma la cosa che mi faceva stare più male era quando, lo faceva dinanzi ai bambini e mi diceva che non valevo niente come madre” (Marta, 46 a.)

Con la costante svalutazione del suo modo di essere viene minata irreparabilmente l’autostima della donna; nel tempo, si verifica una frattura identitaria che inficia le sue capacità di resistenza e reazione che la portano ad essere più fragile, insicura e quindi più “controllabile”. Ed è proprio il controllo un asse cardine della violenza psicologica. Controllo nell’accezione più ampia del termine: controllo delle spese, delle relazioni sociali, del telefono, delle mail, del modo di vestire e talvolta anche di quando e cosa dire. Un senso di possesso, e di controllo che porta l’uomo a considerare la donna come “sua proprietà”, una donna che, diventata oggetto e quindi che può essere posseduta. Un controllo che spesso viene giustificato dal partner con “la gelosia”.

Umberto Galimberti nel suo lavoro “Le cose dell’amore” (2004) parla di “l’affermazione di sé nell’annullamento dell’altro”. Egli aggiunge “Sembra non esistere passione senza che questo sentimento sfoci nell’immedesimazione con l’altro, con conseguente perdita o smarrimento della propria identità, oppure  nel possesso della persona amata, con la tendenza ad escluderla dal mondo  […].

L’esclusione dal mondo della donna maltrattata da parte del suo partner introduce un’altra caratteristica della violenza intima: l’isolamento. Alle donne viene impedito di poter frequentare la famiglia, gli amici, di poter lavorare, studiare. Essere libere. L’impedimento non è necessariamente realizzato con un divieto netto, spesso è subdolo, si concretizza con richieste più o meno manipolatorie, che hanno il risultato di far ritrovare la donna sola senza che lei se ne renda conto. In questo modo l’uomo maltrattante “fa terra bruciata intorno alla donna” creando in lei una maggiore fragilità e una maggiore dipendenza da lui. L’isolamento, nei casi più estremi, può arrivare anche ad una vera e propria segregazione fisica e prigionia della donna. Marta (54 a.) “…. E poi non voleva che frequentassi la mia famiglia, diceva che loro facevano di tutto per farci lasciare, e anche le mie amiche… diceva che erano gelose della nostra relazione…”

Tutto questo avviene in maniera reiterata e progressiva, ma ecco che, ad un certo punto, nella relazione, arriva lei, la paura. L’emozione che prevale su tutte le altre, che si insinua nella mente della donna, che ne offusca il cervello portandola a pensare di non avere alcuna speranza di sottrarsi al suo carnefice. Nella maggior parte dei casi le donne riferiscono di incominciare ad aver paura ancor prima che la violenza fisica venga agita. Le minacce e le intimidazioni riescono a creare in loro uno stato di terrore, di incertezza, e quasi di attesa di quella violenza fisica che, col tempo, cominciano a considerare addirittura inevitabile. Le porte sbattute, la distruzione degli oggetti, il guidare in modo molto pericoloso dopo una lite, o fare il gesto di picchiare la donna con uno schiaffo o un pugno senza però colpirla veramente, sono atti di intimidazione e minaccia che fanno male alla psiche nello stesso modo della violenza fisica. La paura si accompagna spesso al senso di impotenza, alla convinzione di essere lei la responsabile di quella situazione e questo contribuisce a rende ancor più difficile per la donna  chiedere aiuto. Conseguenza? Aumento del “tempo del silenzio”, della non denuncia: più la donna si sentirà sbagliata, colpevole, più difficile sarà per lei aprirsi all’altro.

Arriva un momento, però, in cui le donne riescono a dire “Basta!”; talvolta è per proteggere i loro figli, altre perché il cuore batte talmente forte che sembra uscire fuori dal petto e le fa percepire che il rischio per la propria sopravvivenza è ormai troppo alto, altre ancora perché arrivano ad un Centro Antiviolenza ed incominciano a diventare consapevoli del loro valore, della loro forza e del meritare di più, molto di più… meritare di “vivere e sentirsi” al sicuro.

Per ogni donna, unico è quel momento e quel motivo che la porta a dire “Basta!”: è il momento della loro rinascita. Un momento in cui rompono il silenzio, in cui incominciano il complesso e difficile percorso di uscita dalla relazione maltrattante, che, passo dopo passo, le porta a prendere coscienza della loro forza e delle loro risorse. È in quel momento che riescono a tagliare quelle catene invisibili di cui la violenza psicologica ha gettato le basi e su cui la relazione maltrattante si è andata costruendo. Un momento per riprogettare il loro futuro ripartendo da Sé e dai propri bisogni. Un momento e un percorso di cui io sono stata testimone e compagna di viaggio, cento, mille volte e che ancora oggi mi commuove perché è il momento in cui quelle donne si riconoscono, scoprono, o riscoprono il valore di Sé.

  • Francesca |

    Sono sposata dal 2004, abbiamo due figlie adolescenti e una delle due ha un carattere oppositivo. Insomma gestirla è difficile perché non le va mai bene niente e si rischia sempre il litigio poco edificante con lei. Quando cerco di assecondarla o di ascoltarla per raggiungere un obiettivo, con molta fatica, mio marito inizia a urlarle contro o a dirle dei no punitivi a caso perché non gli interessano mai le sue ragioni e quando cerco di mediare o di capire, a voce bassa e fuori dalla vista delle ragazze, perché si comporti così, lui inizia a urlare anche a me, urla che lo sentono in piazza e ovviamente lo sentono le figlie, con il risultato che io risulto un gradino più in basso rispetto a lui e quindi la mia opinione non vale niente per nessuno della famiglia. Questo mi fa parecchio male. Premetto che mio marito non mi è mai stato vicino nemmeno nelle gravidanze e che si “occupa delle figlie” soprattutto se c’è possibilità di public relations e di far vedere quanto lui sia in gamba. Ogni volta che gli ho chiesto aiuto non mi è mai venuto in aiuto, con un secco no o procrastinando i compiti che dovremmo dividerci per giorni, mesi o anni finché, esasperata, ho fatto da me. Ho un promemoria sul telefono che ogni mattina mi ricorda di non chiedergli niente perché altrimenti ci rimango male io, la cosa mi fa molto soffrire. Per fare un esempio lui organizza di imbiancare una stanza e poi invece mi devo occupare di tutto io dall’allestimento alle pulizie finali.
    Oggi mentre cercavo di capire perché stesse urlando alla figlia anziché parlare con lei civilmente, mi ha detto “non ti voglio sentire (lo dice sempre) psicologa del caxxo (io sono laureata in psicologia ma ho anche un’altra laurea, lui ha la terza media . Lavoriamo entrambi).
    Sono sempre più i momenti in cui escogito il modo di trovare un appartamento per togliere il disturbo che i momenti sereni. Non so come fare e non ho nessuno a cui confessare il mio malessere, a volte penso che esagero e che tutto sia colpa mia. A chi potrei rivolgermi per capire se sto ingigantendo la situazione? Potrebbe andare bene un consultorio.

  • Giulia |

    Purtroppo anche io, ormai da 20 anni. La gabbia è troppo alta e troppo dura per uscirne. So che prima.o poi mi succederà qualcosa di grave ma ho le mani legate da tantissimi punti di vista.

  • Margherita |

    Come mi sento io

  • Margherita |

    E’ difficilissimo fare denuncia perché dopo tutto quello che si passa per arrivare a pensarci si deve rivivere tuta la bruttezza e difendersi per farsi credere perché ci può essere calunnia. Credo che per questo che molte rinunciano. Non si sa cosa potrà accadere. Mio marito mi dice sempre nessuno ti crede, tutti sanno che io non farei male a nessuno, sei tu che mi maltratti. Ho avuto 2 settimane di prognosi per maltrattamenti fisici.

  • Laura |

    Salve e la cosa più denigrante che sono proprio le donne a farti terra bruciata intorno

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