Più del 30% delle persone “lavora per vivere”, il 25% per generare un impatto positivo, solo il 18% per amore verso il proprio lavoro. A motivazioni diverse corrispondono aspettative diverse e, di conseguenza, diversi livelli di coinvolgimento. Un tema centrale per ogni organizzazione, tanto che il Global Human Capital Trends 2025 di Deloitte identifica la “motivazione” come uno degli aspetti chiave per comprendere – e anticipare – i cambiamenti in atto nel nuovo capitale umano.
Nella grande sfida del cosiddetto talent shortage (la mancanza di talenti), infatti, le maggiori difficoltà si incontrano principalmente in due momenti: la ricerca di personale che possa avere non solo le qualifiche adeguate, ma anche l’attitudine idonea a entrare a far parte di una determinata realtà e il mantenimento di alti livelli di coinvolgimento e di senso di appartenenza all’organizzazione. Alimentare l’interesse del/la dipendente evitando che possa smorzarsi nel tempo è, infatti, la chiave per evitare dimissioni e quite quitting.
Dalle interviste effettuate a 10.000 leader aziendali e delle risorse umane in 93 paesi è emerso che le motivazioni che spingono le persone a lavorare sono molto variegate: il 32% lavora per vivere e per provvedere ai propri bisogni, il 25% lavora per un “purpose” e per generare un impatto positivo, il 18% lavora perché ama ciò che fa, il 13% lavora per una ricompensa (spesso economica) e l’11% lavora per vincere, ovvero per nutrire il proprio spirito di competizione. La maggior parte delle persone ha anche affermato che le motivazioni sono cambiate nel tempo, soprattutto negli ultimi tre anni. Inoltre, per il 60% del campione, la propria azienda dovrebbe dedicare molta più attenzione al tema del coinvolgimento, adottando un approccio personalizzato.
Perché indagare le motivazioni
Comprendere cosa spinge davvero le persone a comportarsi in un determinato modo e cosa guida le loro scelte, significa, di fatto, fare un salto in avanti. Andare oltre il modello del lavoratore o della lavoratrice inteso come “titolare di un posto di lavoro come tanti” e adottare, invece, un approccio umanocentrico per liberare il potenziale di ogni persona, promuovendone le aspirazioni e valorizzando al contempo le priorità strategiche dell’azienda. Secondo Deloitte, questo approccio racconta molto più di qualsiasi titolo accademico e di qualsiasi job title quali sono i valori e le priorità di ogni individuo.
Indagare le motivazioni che spingono le persone verso un determinato lavoro è fondamentale anche per evitare che le aspettative del singolo siano deluse. Come emerso da una ricerca di Michael Page, infatti, il 71% dei dipendenti in Italia ha pensato di lasciare il proprio impiego già dal primo giorno. Un dato significativo specie se sommato al fato che solo il 26% dei dipendenti si è sentito pienamente supportato nel muovere i primi passi in azienda, mentre il 79% ha affermato di non aver ricevuto alcun benvenuto.
La solitudine del primo giorno, del resto, è capitata (quasi) a tutti. Il problema è che in un mondo del lavoro che fatica a stare al passo – veloce – delle nuove generazioni, non è più possibile lasciare qualcuno in panchina, neanche per un solo giorno. Il 46% del campione intervistato da Michael Page, infatti, vorrebbe incontrare il proprio futuro manager prima di iniziare e il 32% apprezzerebbe una visita esplorativa in azienda prima dell’inizio della collaborazione.
Sono passaggi utili per testare appieno le motivazioni del/lla candidato/a. Le settimane e i mesi successivi al primo giorno, infatti, determinano se l’entusiasmo iniziale si trasformerà in un impegno duraturo o in un’uscita anticipata. E in questo secondo caso, i costi per l’azienda rischiano di diventare molto alti.
Molto si gioca nei primi giorni
Secondo uno studio di Glassdoor, un’esperienza di onboarding positiva può migliorare il coinvolgimento delle persone fino all’82% e aumentare la produttività del 70%. Ma affinchè questo avvenga, è fondamentale che il management, per primo, sia formato. Come emerge dall’ultima survey condotta da Cegos Italia e dedicata alla formazione, però, il 41% dei manager non ha ricevuto supporto al momento dell’assunzione del nuovo ruolo e il 36% ritiene insufficiente l’investimento dedicato alla formazione.
Eppure, motivare e ispirare le persone in modo positivo è la prima competenza richiesta ai/lle manager del futuro per riuscire a creare team produttivi e soddisfatti. Un obiettivo che si costruisce non tanto attraverso benefit o premi, quanto piuttosto ascoltando le aspirazioni delle persone e supportandole nei momenti chiave (dall’omboarding alla genitorialità).
In definitiva, comprendere le motivazioni profonde delle persone non è più un esercizio accessorio, ma un pilastro fondamentale del mondo del lavoro contemporaneo. Le organizzazioni che sapranno andare oltre i soli titoli formali, adottando un approccio più umano e personalizzato, riusciranno a creare legami profondi con le persone, coltivando nel tempo un valore fondamentale come la fiducia. Perché, in fondo, non esistono persone “non coinvolgibili”, ma contesti che non coinvolgono.
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