Barbara Bernardini è decisamente una donna di editoria. Lavora in una casa editrice, ha aperto un’agenzia letteraria, cura una newsletter, ha scritto un libro. La sua strada professionale è un percorso a tappe, con cambi di rotta, ripensamenti e ritorni, in un periodo in cui al lavoro si dà un peso sostanziale per la vita. Ripercorriamo con Barbara questo cammino, un racconto sullo stato dell’editoria, sulla ricerca del lavoro (dei sogni?), sul rapporto fra vita professionale e vita privata, tenendo presente, come leggerete, che “non è il lavoro che ci rende un certo tipo di persona, ma è il tipo di persona che siamo, che diventiamo passo per passo, a costruire un percorso lavorativo che ci sta bene”.
[In questa intervista si parla di: primi passi in casa editrice – sogni nel cassetto – consigli per chi vorrebbe lavorare in ambito editoriale – corsi di editoria e formazione – agenzie letterarie – scrittura e ambiente – newsletter e libri – “resistenza ecologica” – “accudire la terra” – scrittori che cambiano il mondo – un erbario in giro per l’Italia – futuro]
Barbara, da quanti anni lavori in ambito editoriale?
Lavoro in editoria dal 2004. Subito dopo la laurea ho fatto uno stage in una piccola casa editrice dove mi occupavo quasi di tutto, dall’impaginazione dei testi all’organizzazione del magazzino. Ho iniziato con l’inventario del magazzino che avevano in questo seminterrato dove c’era anche la mia postazione da redattrice. Se ci ripenso, mi sento come in un romanzo di Dickens: non so se è la memoria che mi confonde, ma ho l’immagine di questa me, venticinquenne, che lavora in un grigio scantinato sola e spaesata fra mucchi di libri accatastati senza ordine.
Da ragazzina sognavi di lavorare in una casa editrice o è una strada che hai intrapreso per altri motivi?
Da ragazzina non avevo un sogno, o meglio, ne ho cambiati talmente tanti che non ricordo nemmeno più quali fossero: uno di quelli a cui ero più affezionata era diventare architetta. Disegnavo case e giardini, arredavo negozi e scuole, immaginavo quartieri e parchi, avevo quaderni e quaderni zeppi di progetti. Fra le superiori e gli anni di università, quando ci viene chiesto di pensare concretamente a un lavoro, mi immaginavo nel campo della comunicazione – erano gli anni del boom di quel settore, un boom che in realtà si stava già sgonfiando ma era un fallimento che ancora non percepivamo – mi stavo diplomando in grafica pubblicitaria e fotografia in un istituto d’arte, per l’università avrei scelto sociologia con indirizzo comunicazione, la strada mi sembrava chiara. Intanto scrivevo per qualche rivista, ma soprattutto scrivevo lettere, tantissime, che poi sono diventate tantissime mail: alcune delle mie amicizie più solide e profonde sono nate così. Però questa dimensione creativa della scrittura mi appariva più come una passione, qualcosa che non aveva a che fare con un possibile lavoro.
Come hai iniziato? Che consiglio daresti a chi vuole intraprendere la strada dell’editoria?
Ho iniziato per caso, con quello stage in uno scantinato di un cortile romano a San Lorenzo, dopo aver frequentato un corso di ufficio stampa per l’editoria: ancora pensavo che la mia strada potesse essere la comunicazione, e mi sembrava interessante quell’ambito che univa i due aspetti, ma ho capito subito che mi trovavo molto più a mio agio in un magazzino semibuio che a tessere relazioni da lanciatissima ufficio stampa. Avevo dalla mia delle basi di grafica, così quello stage che doveva essere per l’ufficio stampa si è trasformato in un compito da magazziniera e impaginatrice. Un paio di anni dopo arrivò un altro stage – a seguito di un master universitario in organizzazione di eventi culturali – che ancora una volta non aveva a che fare con il corso a cui era legato: entrai a minimum fax nel 2006, come segretaria di produzione per l’audiovisivo. Non c’entravano gli eventi, anche se alcuni temi del master mi sarebbero stati utili, ma più utile ancora mi è stato l’aver lavorato nell’amministrazione di un’azienda di vernici. Ecco, il consiglio forse è questo: tutto serve.
Quale lezione ne hai tratto?
A me sembrava di star navigando a caso, in balìa delle correnti, di seguire sempre le strade sbagliate (come scoprivo, ogni volta, in corso d’opera), mi ero ritrovata in una delle mie case editrici del cuore, il mio sogno, ma dovevo starmene lontana dai libri, a rincorrere registi volubili e scadenze dei bandi europei per il cinema. Eppure tutto questo è servito. Tutto in qualche modo si è ricomposto in qualcosa che ha avuto senso, e poi si è smontato mille altre volte facendo crollare i miei sogni, per poi rimontarsi in forme nuove e inaspettate. È importante essere pronti a smontare le cose, e a rimontarle, a dare forme diverse a quello che abbiamo, senza incaponirci su un unico obiettivo. Avere la mente aperta, la capacità di vedere, di sentire, di capire che una strada non fa per noi, anche se così ci sembrava, e di provare quella secondaria, il sentiero più piccolo che non avevamo preso in considerazione. E ricordarci che non è il lavoro che ci rende un certo tipo di persona, ma è il tipo di persona che siamo, che diventiamo passo per passo, a costruire un percorso lavorativo che ci sta bene.
In minimum fax oggi curi l’organizzazione dei corsi. Come sei arrivata dal reparto audiovisivo alla formazione?
È stata la convergenza di due occasioni: nel 2008 abbiamo cominciato a ragionare su come rendere l’attività dei corsi, che fino ad allora era stata occasionale, qualcosa di stabile e con una programmazione più corposa, e questo rendeva necessario che ci fosse qualcuno a occuparsene in modo continuativo; dal canto mio personale, era nata l’esigenza di avere un lavoro con orari più gestibili, meno folli di quelli dell’audiovisivo che avevano settimane di accelerazione estrema. E poi la “scintilla”: avevo partecipato come uditrice a un corso di scrittura tenuto da Giordano Meacci. Quell’atmosfera intima, effervescente, quella miccia creativa che poteva essere mettersi intorno a uno stesso tavolo per leggere romanzi, racconti e per lavorare su testi scritti dai partecipanti è stata la spinta definitiva.
Secondo te i corsi, che allo stato attuale sono tantissimi, creano posti di lavoro? Le case editrici preferiscono, nella ricerca di personale, attingere a corsisti, hanno una corsia preferenziale? Oppure il numero elevato delle persone che si “specializza” crea entropia e non aiuta a trovare un lavoro stabile?
Da quando ho iniziato a occuparmene a oggi i corsi si sono moltiplicati senza sosta. Noi abbiamo mantenuto una formula abbastanza simile al passato, abbiamo aggiornato i programmi e i temi, incluso tecnologie nuove, ma l’impostazione di base, quella sensazione di stare tutti attorno a un tavolo per creare qualcosa, abbiamo cercato di mantenerla, anche quando quel tavolo è virtuale. Per me l’obiettivo rimane: crescere, imparare, riattivare un impulso creativo, aggiornarsi, costruire relazioni. Suggerirei di diffidare dai corsi che promettono un lavoro, soprattutto se è il lavoro dei sogni. C’è in atto un grande ripensamento rispetto al nostro rapporto col lavoro. Quello editoriale in particolare è stato sempre romanticizzato: è una cosa a cui ho ceduto anch’io nel passato, ma che sto imparando a cambiare. Noi per esempio abbiamo smesso di attivare stage di fine corso.
Come mai?
Mi rendo conto che la promessa di uno stage renda l’offerta formativa più allettante per chi cerca lavoro, ma l’automatismo per cui a fine corso c’è, ogni anno, un nuovo gruppo di persone che dovrebbero lavorare gratis fa perdere a questa esperienza la sua finalità formativa e la rende un problema per le possibilità concrete di inserimento lavorativo. I corsi di editoria sono utili da un lato, molto pratico, per acquisire strumenti lavorativi concreti, dall’altro per costruire contatti e relazioni. Credo che l’obiettivo sia più costruirsi un bagaglio di strumenti, che spesso sono utili anche in settori molto diversi o, come spesso suggeriamo, per prendere in considerazione ruoli meno inflazionati, come quelli dell’area commerciale o del diritto d’autore, che offrono l’opportunità di occuparsi di aspetti molto più creativi di quanto si creda.
Più di dieci anni fa hai fondato l’agenzia letteraria Lotto 49, con una libreria e un’edicola come “costole”. Ci racconti l’avventura?
Ho fondato, con alcune colleghe e amiche, questa agenzia e service editoriale, che aveva fra le sue attività anche una libreria e un’edicola digitale. Io mi occupavo dei corsi di formazione e appunto di Port Review, un’edicola digitale per riviste culturali: in queste quattro parole ci sono tutte le criticità del progetto, purtroppo! Le edicole sono in crisi, il digitale non è mai decollato veramente (o meglio non si trova ancora una formula per cui sia sostenibile economicamente, fra abbonamenti, paywall e altre forme), le riviste stanno chiudendo una a una e quelle culturali se la passano ancora peggio. Secondo me alla base aveva un’idea molto forte – una sorta di Spotify delle riviste, in cui potevi leggere a pagamento un mix di articoli pescati da diverse testate, selezionandoli in base a preferenze personali, argomenti, eventi, tipologia – che però aveva bisogno di un budget di partenza per la realizzazione tecnica completa molto più alto di quello che avevamo a disposizione. È stata comunque un’esperienza bellissima: mi sono divertita, mi sono occupata di riviste letterarie, che per me sono una delle cose più vive, profonde, innovative e sensate di tutto il carrozzone editoriale. Purtroppo, però, non è andata male solo l’edicola ma anche la libreria; per quanto ora sia “di moda” questa rivalutazione del fallimento come atto quasi di disobbedienza verso una società che ci vuole sempre performativi, ed è una lettura che condivido, nel concreto poi ci sono le persone che deludi, o con cui rimangono questioni in sospeso, e questo ovviamente è un peso che ti porti dietro.
Avresti immaginato che ti avremmo conosciuta anche come scrittrice molto attenta all’ambiente, al giusto ritmo delle cose, all’importanza di stare non solo sulla Terra, ma con la Terra?
Non mi aspetto mai niente, e anche quando lo faccio, di solito sbaglio previsioni, quindi no, non me lo aspettavo. Nei primi anni Duemila ho smesso di scrivere per le riviste, come si fa con molte cose della vita, che a un certo punto si accantonano e rimangono lì in un angolo fino a che non ci inciampi nuovamente. Sull’importanza dell’ambiente però mi fa piacere che sia venuta fuori questa parte di me e dei miei interessi e mi fa piacere anche aver trovato un modo di raccontarla: collaboro con alcune associazioni ambientaliste, cerco di informarmi sempre, partecipo a manifestazioni e provo in diversi modi ad attivarmi ma forse la mia dimensione è quella delle parole scritte.
Com’è nata questa tua passione per le piante, per la natura, che ha portato consapevolezza e la newsletter “Braccia rubate” con circa 1.500 iscritti oltre al libro “Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica”?
Quella passione c’è sempre stata, vivo in campagna, ma avevo separato i due ambiti – quello lavorativo e editoriale, da quello più personale, privato, legato a casa: alla mia terra, al mio orto, alla mia famiglia e le sue origini contadine. La scrittura mi è parsa il punto di congiunzione, perché riesce a portare le riflessioni più intime agli altri, riesce ad aprire il privato all’esterno. È sempre stata la scrittura lo strumento con cui più mi trovo a mio agio se devo parlare di cose che ho a cuore, parlare di me, tentare di farmi capire. Ed è così che, dopo l’isolamento del lockdown del 2020, durante il quale ho ripreso con più costanza a curare l’orto, ho capito che avevo bisogno di riallacciare legami: “Braccia Rubate” è nata per questo. Una newsletter che parlasse di cose semplici e concrete, ancorate alla terra. L’idea del libro all’inizio è nata per dare uno spazio e un respiro più ampio agli scritti del diario dell’orto presente nella newsletter. Proseguendo nella stesura, però, ho capito che non volevo che il libro parlasse solo di un pezzetto piccolo e recintato di terra e di un tempo, un anno, altrettanto recintato ma che si aprisse, come dice il titolo, al mondo; così per ogni mese raccontato accanto al diario dell’orto ci sono due capitoli: l’almanacco degli anni a venire, uno sguardo verso il futuro (e spesso anche al passato, con la storia di alcuni ortaggi o di alcune tecniche di coltivazione), e gli innesti, che allargano lo sguardo fuori dai confini dell’orto, al mondo, ai temi della crisi climatica, passando per altri libri, per associazioni e realtà dell’attivismo, ricerche, a volte anche favole e leggende.
Cos’è per te la “resistenza ecologica”?
Il sistema economico – quello dominante, e gli interessi che lo guidano – sta occupando gravemente le possibilità di avere un pianeta vivibile, il futuro stesso della nostra e delle altre specie. Sarebbe bello se si sollevasse un movimento di liberazione da questa occupazione, una resistenza ecologica, a favore degli ecosistemi, della salute, della giustizia ambientale e sociale. A livello molto più piccolo, è resistenza anche preservare la fiducia, la speranza, una certa serenità davanti a un mondo che scricchiola, che mostra continui cedimenti e dal futuro fosco. La resistenza ecologica di un ecosistema è la sua capacità di resistere a eventi di disturbo che hanno impatti negativi sulla sua stabilità: riuscire a rimanere stabili, a non cedere alla disperazione nonostante i continui impatti negativi delle notizie che ci arrivano, ecco, è resistenza ecologica. E per resistere abbiamo bisogno di allenare lo sguardo, cambiare prospettiva, prenderci cura di noi, dei nostri tempi, dei nostri corpi e del nostro stare dentro un ecosistema. I due aspetti hanno bisogno di camminare insieme: non c’è possibilità di cambiamento se non agiamo collettivamente e a livello politico e globale, non come somma di persone separate che compiono azioni individuali “giuste”; ma non c’è possibilità di cambiamento nemmeno se perdiamo la speranza. Abbiamo bisogno di ritrovare la bellezza, lo stupore, la meraviglia che ci sta intorno e che è ciò per cui vale la pena salvare questo mondo. E non è solo nelle manifestazioni grandiose della natura, un ghiacciaio, una foresta intatta, le profondità dell’oceano, a volte quello stupore è si può trovare di fronte a un uccellino più comune che si posa nell’orto (anche se ti frega i semi!).
Lo scrittore siciliano Mattia Corrente ha scritto: “Accudire la terra è un esercizio di cura inestimabile. Il cielo è affascinante, e lo scrutiamo da secoli in cerca di risposte. Ma quanto vale un cespo di insalata venuta su bene?”. Ti ritrovi in queste parole?
Sì, il lavoro agricolo è sottovalutato: ho scelto il nome della newsletter, “Braccia Rubate”, per prendere un po’ in giro questo modo di guardare ai contadini come degli zappaterra senza arte, senza capacità, senza conoscenze – eppure, sapere come produrre del cibo non è la sapienza più importante? – e non dico che dovremmo tutti tornare a zappare ma che sarebbe utile un esercizio di concretezza, di rivalutazione di ciò che davvero è indispensabile e insostituibile. L’elemento assoluto della concretezza per me è proprio la terra, che, come il lavoro contadino, è un elemento sottovalutato. Consideriamo il suolo solo una superficie da calpestare, dove camminare nel migliore dei casi, da asfaltare nel peggiore. Consumiamo suolo – cioè ci costruiamo sopra, o lo coltiviamo in modo intensivo rendendolo sterile – a ritmi folli senza considerare che è una risorsa limitata e preziosa, perché permette di ricavare cibo, a noi e alle altre specie terrestri, di assorbire CO2, e garantisce un ciclo dell’acqua sano. Quello che ci sembra uno strato inerte da calpestare, è in realtà un ecosistema complesso, delicato e pieno di vita.
Secondo te uno scrittore può farsi anche mezzo, veicolo per un messaggio importante, che davvero cambi qualcosa? Mi auguro che questo tuo parlare ai lettori di certi argomenti come fai tu, con delicatezza e garbo, porti pian piano a una vera presa di coscienza e, perché no, a un cambio di abitudini.
Ci sono libri che davvero hanno portato grandi cambiamenti – “Primavera silenziosa” di Rachel Carson ha contribuito a far nascere l’ambientalismo moderno e a far approvare una legge, negli Usa, di limitazione all’uso dei pesticidi – e ci sono libri, come il mio, che magari si accontentano di spostare di poco il punto di vista di un lettore, di far nascere la curiosità su un tema o di far venire voglia di seminare un pomodoro. Su “Braccia Rubate” spesso ospitiamo scrittrici e scrittori, agricoltori seri e non improvvisati come me, persone che in vario modo provano a immaginare modi diversi di stare al mondo. Spero che anche la possibilità di conoscere queste voci sia un modo di mostrare che non si è soli a sentire un malessere, a sentire come oppressivo un ritmo di vita che ci sta schiacciando, e che esistono modi di disinnescare quel malessere, di venirne fuori, di provarci, almeno, ciascuno in modo diverso ma sentendo che non si è soli. La comunità che si è creata intorno a questa newsletter è molto bella, viva, spesso consolatoria.
Raccontaci dell’erbario che sta facendo il giro d’Italia, un altro dei progetti che stai portando avanti da qualche anno, con grande partecipazione dei tuoi lettori.
L’erbario è un quaderno che è partito ad aprile 2022 e che da allora sta girando per l’Italia, a volte anche all’estero, passando di persona in persona fra lettrici e lettori della newsletter che avevano scelto di partecipare e che quando ricevono l’erbario possono riempire alcune pagine, con foglie e fiori essiccati, ma anche foto, disegni, testi.
Molti anni fa – quasi venti, ormai – una rivista che amavo, FaM libri, aveva fatto girare per l’Italia un quaderno che era stato riempito in modo collettivo: mi era sembrata già allora un’idea anacronistica, divertente e senza troppe pretese e al tempo stesso stupenda. Così ho pensato che un erbario collettivo sarebbe stato ancora più anacronistico e poetico. Non vedo l’ora di scoprire com’è diventato ora che è quasi completo. E anche questa lunga attesa – due anni – in cui ha compiuto il suo giro lento, dove ognuno ha potuto prendersi il tempo che gli occorreva per riempire le sue pagine, è un modo per rendere reale qualcosa che ci diciamo sempre: che dobbiamo riprenderci il tempo, ridargli valore e, pure, ridare valore alle cose costruite insieme.
Dove ti vedi tra, diciamo, cinque anni?
Sempre qui: ho un orto, che quest’inverno è a riposo in realtà (non ho seminato quasi nulla, ma c’è bisogno anche di questo: di pause, di recupero, di rigenerazione) e che a primavera ripartirà. Ho piantato degli alberi con l’intenzione di vederli crescere e di coglierne i frutti. Ho molte idee per “Braccia Rubate”, quindi sarebbe bello se anche questo progetto fosse ancora qui fra cinque anni. Mi piacerebbe scrivere ancora, ho riscoperto questa dimensione di apertura e mi piacerebbe continuare a starci dentro, a raccontare, a lavorare sulle parole, e poi devo dire che è stato divertente e buffo vivere un anno da “scrittrice”, superare la timidezza e parlare del mio libro davanti ad altre persone, sapere da loro cosa avevano trovato fra le pagine. Ma chissà poi: non mi aspetto mai niente e anche quando lo faccio finisce che sbaglio previsioni, quindi, davvero, chi lo sa. A primavera seminerò per l’orto estivo, questo intanto è il primo proposito su cui posso avere una qualche certezza. Per il resto vedremo cosa germoglierà.
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“Donne di editoria” è un viaggio a puntate di Alley Oop, ideato e curato da Manuela Perrone, tra le professioniste che a vario titolo lavorano nel settore dei libri: editrici, libraie, scrittrici, bibliotecarie, comunicatrici, traduttrici. Tutte responsabili, ciascuna nel proprio ambito, di disegnare un pezzo importante del nostro immaginario e della nostra cultura.
Qui la prima intervista alla libraia Samanta Romanese.
Qui la seconda intervista alla filosofa ed editrice Maura Gancitano.
Qui la terza intervista all’illustratrice Daniela Iride Murgia.
Qui la quarta intervista alla editor Flavia Fiocchi.
Qui la quinta intervista alle libraie Maria Carmela e Angelica Sciacca.
Qui la sesta intervista alla poeta Elisa Donzelli.
Qui la settima intervista alla editor Ilena Ilardo.
Qui l’ottava intervista alle scrittrici Giulia Cuter e Giulia Perona.
Qui la nona intervista alla editrice Mariangela Tentori.
Qui la decima intervista alla editrice Erica Isotta Oechslin.
Qui l’undicesima intervista alla “libraia felice” Monica Maggi.
Qui la dodicesima intervista alla libraia Daniela Bonanzinga.
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