Le donne devono vestirsi da uomo per poter essere curate dai medici? Se lo chiedeva la cardiologa e ricercatrice Bernardine Patricia Healy, agli inizi degli anni Novanta, quando, diventata direttrice dei National Institutes of Health (Nih) statunitensi, si accorse che la ricerca scientifica in quell’agenzia era condotta soltanto sugli uomini e sugli animali maschi. Notò come a livello clinico le donne fossero sottoposte molto meno degli uomini a procedure diagnostiche e terapeutiche e riportò le sue riflessioni in un editoriale intitolato “La sindrome di Yentl”, dove Yentl è il nome dell’eroina di un poema del diciannovesimo secolo che doveva vestirsi da uomo per poter frequentare la scuola rabbinica. A questo editoriale si fa risalire l’inizio delle riflessioni sulla “medicina di genere”.
Non è soltanto una percezione comune che una donna possa faticare a farsi ascoltare e curare nel modo giusto dal proprio medico. È un dato di fatto, provato da un ampio spettro di studi. E di questi studi parlano nel loro libro Valeria Raparelli e Daniele Coen, che hanno scritto per Giunti Editore “Quella voce che nessuno ascolta. La via della medicina di genere alla salute per tutti”.
La salute per tutti, non solo per le donne: deve essere chiaro fin da subito che se è vero che la riflessione sulla medicina genere specifica è stata aperta dall’osservazione dell’inadeguatezza delle cure per le donne, è anche vero che un approccio più inclusivo alla medicina non riguarda solo le donne. Come spiega Daniele Coen, medico d’urgenza che ha guidato per quindici anni il pronto soccorso dell’Ospedale Niguarda di Milano, e assieme all’attività clinica e di ricerca si è già occupato di divulgazione scientifica:
“Considerare la medicina di genere un sinonimo di medicina delle donne è una contraddizione in termini. La medicina di genere si fonda sul riconoscimento dei differenti aspetti biologici (sesso specifici) e psico-socio-culturali (genere specifici) che caratterizzano la salute e lo stato di malattia di tutte le persone, uomini, donne e generi non binari. Per questo la medicina di genere nel suo includere e riconoscere a 360 gradi l’unicità delle persone è il presupposto alla base di una medicina equa e personalizzata. Dalla sua applicazione non traggono beneficio solo le donne, ma anche gli uomini e i generi non binari. Si tratta proprio di un cambio di prospettiva su come affrontare i problemi della salute delle persone. È innegabile che la strada da fare sia ancora lunga ma confrontarsi e discutere il tema con le persone rappresenta un punto in avanti nel percorso come professionisti della salute e come ricercatori”.
Nel libro c’è un paragrafo dal titolo “Il dolore atipico è tipico”: fa riflettere sul fatto che forse l’approccio classico alla medicina, quello occidentale perlomeno, tende a livellare i sintomi su uno standard irreale. Spiega Valeria Raparelli, ricercatrice clinica presso il Dipartimento di Medicina traslazionale e per la Romagna e affiliata al Centro universitario di studi sulla Medicina di genere dell’Università degli studi di Ferrara, esperta nell’ambito della medicina sesso e genere specifica:
“C’è un livellamento su un modo di studiare, e quindi di gestire le malattie, come se interessassero solo uomini di media età. Semplificando, visto che in linea di massima le donne e le persone di genere non binario (ma anche i grandi anziani) sono sottorappresentati negli studi clinici, i medici, seppure in buona fede, tendono ad applicare a tutti i loro pazienti risultati di efficacia e sicurezza che sono stati provati prevalentemente su uomini al di sotto dei 75 anni. Capita che sia poi la pratica clinica a mettere in crisi le false certezze dei medici, dimostrando una diversa efficacia delle cure nelle persone di sesso femminile e negli altri gruppi poco indagati dalla ricerca clinica. Da qui la consuetudine di definire ‘atipico’ tutto ciò che non rientra nelle presentazioni classiche di malattia che fanno riferimento per lo più a quanto accade nei pazienti di sesso maschile. Ecco, forse irreale è proprio questo pensare che uomini, donne e generi non binari siano uguali rispetto alle manifestazioni e ai bisogni di salute”.
Quello che oggi sappiamo è che la genetica, gli ormoni sessuali, il metabolismo, ma anche il ruolo sociale, culturale, lavorativo e l’identità di genere determinano importanti differenze tra le persone, che siano uomini, donne o chi in questo binomio non si riconosce. Ma c’è di più: nei primi capitoli del libro, in una descrizione assai godibile e chiara di cosa sia il Dna, viene spiegato che nella struttura del Dna vi è una porzione non codificante estremamente più grande di quella codificante. Ovvero, la parte di Dna che ha la funzione di determinare le caratteristiche di un individuo corrisponde al 2%, mentre il 98% è quello che viene definito “Dna spazzatura”, “forse per la nostra incapacità di comprenderne l’utilità”, scrivono Coen e Raparelli. Ma può darsi che la complessità degli individui dipenda proprio da questa enorme porzione di Dna non ancora spiegata.
A partire da questo presupposto è possibile creare una medicina delle persone per le persone, che superi il concetto binario di donna e uomo e offra le cure giuste a ciascuno di noi. Si questo sguardo nuovo e complesso gioverebbero tutti, anzi, tuttə, è proprio il caso di dire. Ma una delle obiezioni più recrudescenti alla pratica medica inclusiva arriva proprio dalle donne: quando si parla di “persone con mestruazioni” o “allattamento al petto” per includere le differenze dei corpi transgender, le donne temono di “scomparire” in questa inclusività. Un timore che viene da lontano e ha che fare con una cultura oppressiva, trasversale e secolare, in cui le donne sono, di fatto, scomparse dietro al privilegio patriarcale, e ora temono di scomparire di nuovo, stavolta paradossalmente in nome del principio dell’inclusività.
C’è un rischio di appiattimento in questa direzione? L’inclusione non sarebbe più efficace nel nominare tutte le differenze senza dare nulla per scontato? Già che parliamo di specificità dei corpi e differenze, nominare queste differenze può aiutare a vedere la complessità. Risponde Raparelli:
“La trasformazione del linguaggio è un passo per veicolare qualsiasi cambiamento culturale. È però importante che la forma porti con sé sostanza, cioè aiuti a declinare le differenze e a farle riconoscere, stimolando in questo modo comportamenti maggiormente inclusivi. In una società come la nostra, che ha infiniti canali comunicativi, lavorare sull’adeguamento del linguaggio è probabilmente un passaggio obbligato per cambiare davvero le cose. Come ricercatrice, oggi, se partecipo a un congresso internazionale, mi viene chiesto nel modulo di iscrizione quale pronome desidero che venga usato sul mio badge identificativo. Se inizialmente questa mi sembrava una richiesta poco sensata, ora, quando converso con altri ricercatori, il rivolgermi a loro con il pronome che desiderano (a prescindere dai miei stereotipi) rende le nostre discussioni più agevoli e confortevoli per tutti. Piccole cose che possono cambiare quelle grandi”.
I convegni, appunto. Il libro di Coen e Raparelli è un testo divulgativo, scritto con chiarezza e il giusto grado di approfondimento per chi non ha rudimenti di medicina. Se per una persona comune leggerlo è un’illuminazione, viene da chiedersi se invece le professionalità mediche abbiano già superato lo stupore e siano molto più avanti su questi argomenti. È così? A che punto siamo con le ricerche sulla medicina di genere? Risponde Coen:
“Certamente molti professionisti sono consapevoli della necessità di un approccio sesso e genere specifico nel contesto sanitario. In Italia esiste una legge del 2018 che declina la medicina di genere come modalità per fornire in maniera appropriata un’assistenza di alta qualità. Questo però non significa che tutti i problemi siano risolti. Per rendere applicabili i principi della medicina di genere alla quotidianità del nostro sistema sanitario sono infatti necessarie azioni concrete. La formazione dei professionisti della salute e una ricerca attenta alle tematiche sesso e genere specifiche ne rappresentano i capi saldi. Sarà inoltre necessario disegnare percorsi diagnostici e terapeutici differenziati per quelle patologie, come per esempio le malattie cardiovascolari, dove le evidenze scientifiche sono già molto forti e pronte per essere diffusamente applicate. Ricerca, formazione e percorsi sesso e genere specifici sono dunque i punti di svolta che potranno cambiare davvero il fare medico nei prossimi anni, migliorando la prevenzione, la diagnosi e le cure per tutti”.
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Titolo: “Quella voce che nessuno ascolta. La via della medicina di genere alla salute per tutti”
Autori: Daniele Coen, Valeria Raparelli
Editore: Giunti, 2023
Prezzo: 18 euro
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