Tra digitale e sostenibilità si gioca la parità di genere

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Circa un anno fa, a commento del III Rapporto annuale dell’Osservatorio mercato del lavoro e competenze manageriali di 4Manager, scrivevamo su queste colonne: “Oggi, alla vigilia dell’avvio degli investimenti oggetto del PNRR e alla riformulazione della nostra economia, in chiave digitale ed ecologica, va colta l’occasione e posta la massima attenzione da parte di tutti gli stakeholder affinché si riparta in modo equo, trasparente, meritocratico e – ove occorre – con i giusti correttivi e meccanismi incentivanti, per superare le asimmetrie di genere che hanno depotenziano sino ad oggi il nostro Paese”.

Da allora, non si ricorda un calendario annuale cosi fitto di iniziative nazionali e internazionali nella storia della Repubblica. A marzo 2021, la Commissione europea, dopo aver disegnato la strategia quinquennale per la parità di genere e lo sviluppo sostenibile, ha presentato la direttiva per la parità di retribuzione tra uomini e donne e per la trasparenza delle retribuzioni; ad aprile è stato approvato il PNRR; in giugno, si è tenuto il G7 Summit a Carbis Bay; in agosto, la ministra Elena Bonetti ha presentato la Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026; a settembre, si è tenuto il B20: raccomandazioni per l’empowerment femminile per il G20, a cui ha fatto seguito il G20 EMPOWER; in ottobre, il Senato ha approva la legge sulla parità salariale e, infine, a novembre è stata la volta della COP26 a Glasgow.

In generale, si potrebbe chiosare che è stato l’anno delle buone intenzioni, improvvisamente risvegliatesi di fronte alla tragedia umanitaria della pandemia, ma saremmo ingenerosi. Se in alcuni casi sono prevalse le dichiarazioni, in altre si è affermato il principio di evidenza, avviando misure volte a cambiare concretamente lo status quo. E’ il caso, ad esempio, della Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, che punta a recuperare – entro il 2026 – cinque punti nella classifica del Gender Equality Index dello European Institute for Gender Equality (attualmente l’Italia è al quattordicesimo posto con un punteggio di 63,8 punti su 100, inferiore di 4,2 punti alla media UE), attraverso cinque priorità: lavoro, reddito, competenze, tempo, potere.

La domanda è: il Paese seguirà? Le imprese, la pubblica amministrazione, le accademie, i centri di ricerca, ecc, ottempereranno agli obblighi di legge e basta o comprenderanno che è un’occasione unica per congedare definitivamente il pensiero novecentesco?

Nei numeri del IV Rapporto dell’Osservatorio di 4Manager, dal titolo “Superare il gender gap: facciamo goal per ripartire” si legge il rallentamento della convergenza lavorativa tra uomini e donne impressa dalla pandemia e l’amplificarsi delle criticità strutturali italiane, che ci allontanano sempre più dalle medie europee. Basti dire che il tasso di partecipazione delle donne italiane al mondo del lavoro è del 53,1%, contro il 67,4% della media europea; il divario di genere nel tasso di occupazione è pari a 19 punti percentuali; il tasso di inattività delle donne per responsabilità di assistenza è pari al 36% contro il 32% della media Ue; il tasso di occupazione equivalente a tempo pieno, che tiene conto della maggiore incidenza dell’occupazione a tempo parziale tra le donne e della durata della vita lavorativa, colloca l’Italia all’ultimo posto della graduatoria europea.

Se ci concentriamo sul mondo imprenditoriale, le posizioni manageriali femminili rimangono ferme ai valori pre-pandemia: sono il 28% del totale, ma si riducono al 18% se calcoliamo quelle regolamentate da un contratto da “dirigente”. Quindi, in questi due anni, non c’è stato neppure quell’aumento dello 0,3%, con cui è “cresciuta” negli ultimi dieci anni la percentuale di dirigenti donne. Quanto alle imprese, l’analisi condotta su un campione di circa 17.000 aziende, l’83,5% è a conduzione maschile, il 12,2% è a conduzione femminile e il restante 4,3% è a conduzione “paritaria”. E cosi via.

Dunque, da dove può arrivare il cambiamento? Si dice dal PNRR e dintorni, ma sappiamo bene che non è sufficiente, perché non è affatto solo un tema di risorse, anzi. Se si analizzano le survey condotte su manager e imprenditori dell’Expert panel dell’Osservatorio, le priorità su cui intervenire sono sempre le stesse: “gli stereotipi di genere” (69,6%), “il gap retributivo” (58,9%) e “il basso numero di donne nelle posizioni di potere” (57,4%). C’è davvero bisogno di risorse finanziarie per risolvere queste anomalie?! O, piuttosto, di un cambiamento di prospettiva, che riconosca nelle competenze delle persone, indipendentemente dal genere, dall’età e da qualsiasi altra diversità, il vero fattore strategico dell’economia della conoscenza?

L’accelerazione dell’uso della tecnologia imposta dalla pandemia ha forzatamente cambiato le modalità di lavoro, aprendo un varco di speranza anche in aziende tradizionali. Le rilevazioni ci raccontano di un incremento della flessibilità lavorativa (48,5%); di facilitazione della cura dell’infanzia (38,5%); di work-life balance (34,8%); di parità nelle procedure di recruiting (23,7%). E intercettano anche, nei casi migliori, l’acquisizione di una prospettiva di genere nei processi trasformativi tecnologici e di sostenibilità. Quello che in gergo si chiama “Sustainable by design” e “Diversity & inclusion by design”. Si tratta di una nicchia di aziende grandi e/o multinazionali, che non supera il 31% del campione dell’Osservatorio, ma che registra una crescita di quasi 10 punti percentuali rispetto al 2020.

E’ in questo promettente incontro tra la ridefinizione dei sistemi produttivi, energetici, urbani e logistici in chiave sostenibile, necessaria per raggiungere gli obiettivi 2030 e 2050 di neutralità climatica, e il perseguimento della parità di genere che sta la novità del post-pandemia. Qual è l’anello di congiunzione? L’urgenza, sempre più impellente, di riprogettare il nostro modello di sviluppo, grazie all’attivazione di tutta l’intelligenza diffusa – e diversa – disponibile. Chissà che questa non sia la volta buona…

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