I Paesi migliori per fare impresa in Europa

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Il miglior posto dove aprire un’attività nel vecchio continente è – udite udite – il Regno Unito. Lo dice uno studio della società inglese Tide. La ricerca fa riferimento a dati della Banca Mondiale e Eurostat dei 27 stati membri dell’Unione europea più il Regno Unito. Si basa quindi su numeri raccolti da fonti ufficiali. Considerazioni sui risultati specifici a parte – qui sotto la tabella con le migliori 10 destinazioni e il dettaglio delle posizioni per ciascuna voce -, offre spunti su alcune valutazioni pratiche da considerare qualora si pensi di tentare un’avventura imprenditoriale. E cercare di farlo dove sia più efficiente e conveniente.

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Prima di tutto è opportuno, ovvio ma non sempre immediato pensarlo, ponderare l’opportunità stessa di espatriare. Restando dove ci si trova, in definitiva, si tagliano tutti i costi e le difficoltà del trasferimento e dell’adattamento a nuove realtà. Da qui, si può leggere nello studio la classifica degli stati, messi in fila per le opportunità che offrono. Per esempio si fa più in fretta ad aprire una società in Danimarca, Francia, Estonia, Grecia e Paesi Bassi. Ed è meno costoso farlo in Slovenia e UK. Il gettito fiscale è, invece, più conveniente in Germania.

A queste valutazioni si accompagnano anche statistiche che investono il lato sociale e umano. Si guarda per esempio al tasso di (dis)occupazione di una nazione – tra i 28 sarebbe la Repubblica Ceca ad avere quello inferiore. O alla densità di nuove imprese presenti sul territorio, dato che potrebbe descrivere un ambiente vivace e in crescita – con l’Estonia in testa.

L’Italia entra nei primi posti, occupando tra l’altro la prima posizione, solo in una voce: il gender pay gap

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Purtroppo chi si interessa anche superficialmente di pari opportunità sa bene che la situazione in realtà è molto diversa. Il quadro descritto da Eurostar (su cui si basa qui la classifica tide) è fuorviante. Secondo le recenti critiche della University Women of Europe e dall’Ecsr (Europen Commitee of Social Rights, Consiglio d’Europa), i dati relativi all’Italia sono inaffidabili. Manca trasparenza riguardo alle informazioni disponibili, anche rispetto alle regole europee. Da tempo i limiti di questa statistica sull’Italia, sono chiari. Basti pensare che il quadro offerto dai numeri non tiene conto delle differenze esistenti tra il settore pubblico e quello privato. Nel primo caso il pay gap è più basso grazie al sistema di assunzioni e alle dinamiche di carriera legate all’anzianità. Nel secondo arriva a oltrepassare in negativo la media europea. Già solo questi dati sfalsano molto il quadro generale. E da qui il discorso si amplia.

Fatta questa necessaria parentesi, resta indubbio che ciascuno dei Paesi considerati ha punti di forza e svantaggi più ampi da valutare, oltre le singole rilevazioni numeriche. Un esempio su tutti è l’opportunità offerta da una nazione in cui vivono potenziali dipendenti che sanno parlare più lingue a ottimi livelli (come succede nei Paesi Bassi). Pur nei suoi limiti, lo studio tide offre una carrellata di spunti a cui non sempre si pensa immediatamente quando si vuole espatriare con il proprio progetto imprenditoriale.

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