In anni in cui le fake news impazzano in rete, rendendo sempre più complicato delineare il confine tra ciò che è vero e ciò che non lo è, i dati – raccolti, elaborati ed esposti in modo corretto – diventano forse l’unica fonte di verità, su cui sia possibile costruire un ragionamento fondato. Questo, a maggior ragione, su temi delicati e facilmente strumentalizzabili, come – ad esempio – gli immigrati, la sicurezza, l’euro e perché no, le donne. O, meglio, l’affermazione femminile nel mercato del lavoro, che spesso e volentieri viene liquidato come un non problema. Ecco perché ogni ricerca seria sul tema del gender gap, che dia evidenza empirica a fenomeni su cui elaborare strategie nell’interesse del paese, non può che essere ben accolta.
E’ il caso del research paper appena reso pubblico da Quadrifor dal titolo “Gender diversity e leadership ai tempi della digitalizzazione”, realizzata su dati afferenti i quadri e le imprese iscritti all’ente bilaterale per lo sviluppo della formazione dei quadri del terziario, sotto la sapiente guida di Pierluigi Richini, responsabile Studi e Formazione di Quadrifor e docente di Organizzazione del lavoro e formazione continua presso l’università Roma Tre. Il pregio della ricerca sta nell’analizzare l’identità, il ruolo, i saperi, la leadership, la gestione manageriale e la visione del futuro delle donne in uno scenario in fortissima evoluzione tecnologica. Una chiave di lettura che intreccia le istanze di equità sociale con le esigenze di competitività del paese.
Il contesto in cui si inserisce la ricerca è quello ancora una volta denunciato, lo scorso 17 ottobre, da #InclusioneDonna, network di 50 associazioni, che rappresenta oltre 40mila donne italiane. I motivi che giustificano la nostra quartultima posizione nella Ue (dopo di noi solo Grecia, Malta, Cipro) nel Global Gender Index 2018 sull’inclusione di genere e il 70esimo posto su 149 pasi, 126esimo nella parità di salario tra uomini e donne, sono sconfortanti. Lavora solo 1 donna su 2 in Italia a causa principalmente di due fattori: la scelta di percorsi accademici non STEM e la maternità. Ai tradizionali gap, dunque, si aggiunge il digital gender gap, che aggrava ulteriormente la situazione dell’occupazione femminile. Se ci aggiungiamo, poi, il divario retributivo, che comporta spesso e volentieri la rinuncia in famiglia allo stipendio più basso provocando l’uscita delle donne dal mondo del lavoro, la frittata è fatta.
Non stupisce allora che la stessa situazione si rifletta nel terziario, dove la ricerca evidenzia un “fenomeno di segregazione, che determina la concentrazione del lavoro femminile solo in alcuni settori con l’esistenza di barriere invisibili ma resistenti che ostacola l’accesso delle donne ai livelli più elevati delle gerarchie aziendali”. O che il pay gap sia una chiara forma di discriminazione, come si legge in questo passaggio: “Il gap retributivo per le donne Quadro influisce pesantemente sugli effetti pensionistici che sono inferiori rispetto agli uomini, in quanto risentono di una minore retribuzione durante tutto l’arco della vita lavorativa.
Detto questo, la ricerca rivela un identikit generale del management femminile che offre importanti spunti di riflessione per agire sulla cultura, sull’education e sulle policy aziendali, in modo da correggere gli squilibri che persistono nella nostra società e nel mondo del lavoro. Intanto, le donne manager del terziario sono più presenti nelle attività di servizi e consulenza alle imprese (26,4% vs. 19,9% dei quadri uomini), situazione che si inverte nell’informatica e in attività connesse (17,4% dei quadri vs. 9,1% delle colleghe). Risultato di scelte di studio più umanistiche che STEM, ma anche di precise strategie aziendali tese a tenerle lontane dalle posizioni decisionali.
Forse per attitudine forse per necessità, le manager legano la soddisfazione relativa al proprio ruolo più a motivazioni di natura intrinseca,e quindi qualitativa, rispetto ai colleghi. L’uso di conoscenze e competenze interdisciplinari, la varietà dei compiti e delle responsabilità, l’apprendimento continuo e, soprattutto, la possibilità di contribuire al miglioramento dell’organizzazione aziendale, compensano – forse – i motivi tangibili di insoddisfazione: il non riconoscimento del raggiungimento degli obiettivi di lavoro, le insufficienti possibilità di carriera, il livello retributivo, l’orario di lavoro ritenuto eccessivo.
Ben consapevoli del valore strategico delle competenze, sono sempre più attive sul fronte della formazione durante tutte le fasi della vita lavorativa, ma prediligono corsi volti al self-empowerment, alla gestione dei collaboratori e all’acquisizione di competenze digitali più per l’utilizzo di strumenti di analisi dei dati per prendere decisioni, che per implementare e gestire innovazioni in azienda. E nelle realtà più piccole, sembrano concentrarsi sulla gestione dei social media piuttosto che sui temi centrali della digital transformation. Una “svista” con conseguenze affatto banali.
Ma forse ciò che fotografa meglio la caratteristica distintiva del management femminile è uno stile di leadership trasformazionale, ovvero più focalizzato sulle esigenze di comunicazione interna ai team di lavoro, sulla costruzione di rapporti di fiducia, sui modelli innovativi di organizzazione del lavoro e di open collaboration. Aspetti fondamentali per governare i cambiamenti organizzativi che richiede la quarta rivoluzione industriale, ma che non devono sottovalutare il business, perché è lì che si concentra il potere. Su questo fronte, è chiaro che si debba fare ancora molto per sdoganare parole come ambizione, carriera e competizione, innanzitutto nel mindset delle donne. Sono loro a confondere ancora troppo spesso il naturale “prendersi cura” con l’esercizio della leadership, che richiede – semmai – ascolto e intelligenza di genere.