L’Avvocatura sui fatti di Palermo: c’è il patriarcato dietro allo stupro

Dopo lo stupro commesso dal branco ai danni della ragazza di Palermo, sono stati giorni di polemiche infuocate. Il susseguirsi di interventi sugli organi di stampa ci consegna una sola certezza: ancora oggi di violenza contro le donne questo paese – o molta parte di esso –  non sa discutere.

E invece di affrontare le tare gravissime che producono numeri da paura – con i femminicidi che si attestano sul centinaio all’anno – certa informazione si ingolfa irreparabilmente, rivittimizzando chi deve già fare i conti con un evento tra i più traumatici.

L’Italia viola la Convenzione di Istanbul 

“La Convenzione di Istanbul, all’articolo 18, stabilisce che gli Stati firmatari si impegnano ad “evitare la vittimizzazione secondaria”, che consiste nel far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, ed è spesso riconducibile alle procedure delle istituzioni susseguenti ad una denuncia, o comunque all’apertura di un procedimento giurisdizionale”.

Questo si legge nella premessa alla Relazione, dedicata al fenomeno dalla Commissione d’inchiesta contro il femminicidio incardinata al Senato, sul finire della passata legislatura.

Il rapporto dice di vittimizzazione secondaria istituzionale, dunque processuale, ma va oltre:

“l’effetto principale è quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima stessa”.

Molto è stato scritto, sono circolati video della serata che precedeva la violenza al Foro Italico. Ma soprattutto è stato divulgato da un quotidiano on line il nome della ragazza, diventato in pochissimo tempo di pubblico dominio, in spregio alle più basilari norme deontologiche oltre che giuridiche.

A distanza di settimane non cala il vociare dei media che si è concentrato dapprima sul diritto alla difesa degli indagati. Ma sono stati i social ad aver investito in pieno la giovane, sulla pelle della quale si è innescato il solito gioco al massacro. L’allusione – nemmeno tanto implicita – è la solita: non avrebbe dovuto cercarsela. Parole gravissime non ne sono mancate, nemmeno questa volta. Mancano invece le prese di posizione che non si limitino alla retorica. Ce le saremmo aspettate dalla politica che è maggioranza in questo paese, per esempio, ma che su un tema così delicato sembra rimanere colpevolmente relegata all’ininfluenza.

Oggi la giovane si trova rifugiata presso una struttura a indirizzo segreto, essendo stata travolta da una vera e propria ondata di odio e di morbosa curiosità. Non è difficile immaginare come possa sentirsi in questo momento; farle arrivare – anche da queste colonne –  tutta la nostra solidarietà che è indignazione ferma, ribadirle con forza che è lei la vittima e che a lei è dovuto ogni riguardo e ogni forma di rispetto sembra pleonastico, ma in fondo forse non lo è poi tanto.

Gli uomini del capoluogo siciliano, intanto, si sono riuniti e insieme alle donne hanno sfilato in corteo per la città: forse è un segnale che apre a una nuova fase di cui si sente tremendamente il bisogno.

La centralità della vittima nei processi: un obiettivo ancora lontano

In una società che voglia dirsi civile, a una giovane donna violata nell’intimità e nella dignità andrebbe riservata una centralità piena, in primis dentro al sistema giustizia. Così non è, o almeno non sempre. Le aule in cui la giustizia è amministrata sono, invece, troppo spesso luoghi di ulteriore dolore per le vittime.

Da chi quelle stanze di tribunale le frequenta quotidianamente la reazione ufficiale non si è fatta attendere però. Il CPO del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati palermitani ha diffuso una nota sulla quale si è registrata immediata la convergenza dell’intero CNF.

A leggere il comunicato, non può sfuggire un segnale. Gli avvocati e le avvocate che lo hanno firmato lo dicono a chiare lettere: c’è il patriarcato dietro a tanta mostruosa violenza agita contro le donne. Cominciamo insomma a parlare di rispetto per la persona, è indubitabile del resto che ci troviamo a ragionare nello spazio della violazione dei diritti umani.

Negli stessi giorni si è mossa anche la rete dei CPO siciliani. Dalla loro nota: Non è tardi per incidere sulla educazione e sulla sensibilità soprattutto delle nuove generazioni rispetto alle quali abbiamo l’obbligo, il dovere di intervenire, investire, incrementando le attività protese alla sensibilizzazione in tema di prevenzione e contrasto della violenza che va sinergicamente sradicata cosi come la mentalità sottesa che spesso ne giustifica le azioni. Non è tardi per riconquistare l’umanità perduta“.

Raggiunta da Alley, l’avvocata Denise Maria Caruso che presiede il Comitato Pari Opportunità presso il COA di Catania ha le idee chiare su ciò che serve fare: Riconquistare l’umanità perduta, questo mi preme sopra ogni altra cosa. Innanzitutto la necessità è di intensificare percorsi educativi validi che coinvolgano i giovani, le scuole, i genitori e tutta la società“. La battaglia è ovviamente tutta culturale. C’è poi l’esigenza di munire chi da tempo si dedica alla lotta contro la violenza di strumenti più efficaci per tutelare, con maggiore adeguatezza, le vittime di violenza – è convinta la presidente Caruso –  Bisogna inibire l’accadimento di episodi di violenza, punire in modo esemplare l’aggressore rieducandolo con supporti opportuni; a tale riguardo occorre accelerare l’iter del disegno di legge approvato nel giugno del 2023. E infine – aggiunge – è improcrastinabile approntare misure di controllo di polizia capillare, così da mettere in sicurezza i soggetti più a rischio”.

Da Rossana Distefano, che è al vertice del CPO di Caltagirone, arriva un altro spaccato della reazione del mondo forense siciliano e dei prossimi passi da muovere. Elaboreremo progetti ed azioni concrete che proporremo e realizzeremo nel territorio del calatino in stretta collaborazione con le forze dell’ordine, le associazioni antiviolenza ma soprattutto con le scuole di ogni livello e grado“, ha detto. Obiettivi primari sono la sensibilizzazione e la costruzione di modelli alternativi, per educare anche alla comunicazione. Ciò potrà avvenire mediante l’ausilio ed il coinvolgimento di professionalità specializzate – e assicura – questo CPO dedicherà forze ed energie per promuovere un cambiamento“. Ma cosa dobbiamo cambiare? Al  centro vanno posti i concetti di ‘corpo e persona’continua Distefano –  per  ricostruire i fondamentali della parità di genere, scevra da moralismi deleteri e ipocriti. È nostra ferma convinzione che la cultura della comunicazione è fondamentale anche per quei giovani, e non, che usano i  profili social in maniera tale da colpire i più fragili; anche la diffusione di immagini e i video che incitano alla violenza devono scagliarsi contro il muro della legalità“. Non ultimo, c’è il nodo fondamentale della formazione: Il CPO si dedicherà ad attività di formazione di una classe forense specializzata nella trattazione di questi reati, considerato il ruolo fondamentale che riveste la nostra professione“.

Il lavoro di chi opera dentro le aule di giustizia

Lo abbiamo sentito dalla voce delle rappresentanti del mondo forense che abbiamo incontrato in questi giorni: chi veste la toga si impegnerà quotidianamente. Molti e molte si fanno già portatori di un agire costante, di un’azione di contrasto condotta seriamente contro le diversificate e radicatissime forme di violenza e di discriminazione di genere.

Nel frattempo la Sicilia è scossa da un’altra violenza di gruppo, questa volta aggravata dal fatto di essere avvenuta in famiglia e a danno di due minori.

Visti i risultati su tutti i fronti, contro questo livello di aggressione nei confronti delle donne e delle bambine possiamo pretendere che si faccia di più? Certamente che possiamo. Ce lo dicono le vittime, in ogni momento e in ogni parte della penisola.

A guardarsi intorno non può sfuggire la resistenza diffusa e trasversale –  in una parola “ideologica” – a frenare le battaglie di parità, tutte, troppo spesso sminuite e tacciate perfino di radicalità. Per tornare ai corridoi dei palazzi di giustizia, si pensi a quella che coinvolge il linguaggio e l’uso non sessista della lingua italiana. Allo stesso modo sono tutt’altro che rari gli strascichi di un maschilismo strisciante che ci pervade tutti e tutte e che è difficile da scrostare.

Uno studio condotto lo scorso anno dalla Fondazione Bruno Kessler, su richiesta degli ordini professionali della provincia di Trento, mostra ad esempio come molte donne preferiscano ancora oggi declinarsi al maschile.

Ma è il motivo addotto che dovrebbe indurci a ragionamenti approfonditi e a conclusioni preoccupate: dire “avvocato” ispirerebbe maggiore fiducia che dire “avvocata”. Per la stessa ragione, non abbiamo mai avuto problemi a dire “maestra di musica” riferendoci a chi insegnava il pianoforte ai nostri bambini, ma s’è innescato invece  un dibattito al vetriolo – anche politico – quando si è trattato di indicare con “maestra di musica” una donna che dal podio dirigeva un’orchestra. È il prestigio a fare la differenza, ad attagliarsi meglio agli uomini allora?

“Ciò che emerge dalla presente indagine – si legge nelle conclusioni del Report della Fondazione Kessler – è che il linguaggio conta: usare ‘avvocata’ anziché ‘avvocato’ ha degli effetti misurabili significativi. I profili delle professioniste presentate con il titolo di ‘avvocata’ ricevono delle valutazioni, relativamente ai loro colleghi maschi, che sono più basse rispetto a quando tali profili sono presentati con il titolo di ‘avvocato’”.

Ciò che i dati di questo studio confermano non può essere ignorato più a lungo: l’uso del titolo ‘avvocata’ ha un costo; ciò spiega anche perché il termine abbia difficoltà a raggiungere un utilizzo diffuso.

Il linguaggio conta, del resto; costruisce il reale, disegna il mondo intorno a noi.

“Se da un punto di vista puramente linguistico il problema non sussiste, poiché la declinazione femminile è la forma grammaticale corretta da utilizzare – continua il Report – da un punto di vista sostanziale si traduce in un problema di equità derivante dal costo imposto a livello individuale a chi fa uso delle forme femminili per presentarsi. Il beneficio aggregato da un uso diffuso della declinazione di genere dei titoli professionali è sicuramente maggiore del costo imposto ai singoli individui”.

Ma su questa conclusione, possiamo dirci in coscienza tutti d’accordo?

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