Ma chi me lo fa fare? Perché offrire al lavoro la gran parte delle ore della mia giornata, e la gran parte degli anni energici e produttivi della mia vita? È secca e diretta la domanda che pone l’ultimo libro di Maura Gancitano e Andrea Colamedici, (titolo completo: “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo”, edito da HarperCollins) e soprattutto è una domanda che tutti e tutte abbiamo avanzato, molto più di una volta nella vita. Non trovando una risposta convincente, in questi ultimi anni, e in particolare dopo il Covid, molti stanno agendo di conseguenza. Secondo i dati trimestrali del ministero del Lavoro, sono state rassegnate oltre 1,6 milioni di dimissioni nei primi nove mesi del 2022, con una crescita del 22% rispetto allo stesso periodo del 2021.
Il fenomeno non riguarda solamente l’Italia: si parla ormai ovunque di Great Resignation, le “grandi dimissioni”, ma anche, letteralmente, la “grande rassegnazione”, come fanno notare Gancitano e Colamedici. Sono tanti, davvero, a dire basta al modo in cui fino a oggi si è inteso il lavoro: una struttura totalizzante dentro cui viene declinata la nostra intera identità. Perché quella in cui viviamo è “Una società del lavoro che rende schiavi e non lascia spazio alla vita, non offre paghe dignitose, né valori condivisi e tempo per la propria fioritura (o sfioritura, purché sia volontaria)”, scrivono. “Mancano anche le energie per domandarsi davvero se tutto questo sia sostenibile e sano, e l’assenza di questi interrogativi sfianca e sforma l’esistenza. La vita non è in grado di tenere i propri contorni abbastanza a lungo e così tutto, in primis il lavoro, finisce con il perdere di senso”.
Fondatori del progetto Tlon, Maura Gancitano e Andrea Colamedici sono da tempo impegnati in prima linea a interpretare e raccontare lo spirito del nostro tempo, provando al contempo a offrire visioni alternative, manuali di fioritura e un’intera biblioteca di occasioni per autorivoluzioni con il catalogo della loro casa editrice. Con il libro proseguono nello smascherare uno per uno gli inganni in cui per decenni abbiamo creduto sul significato del lavoro nelle nostre vite. L’inganno del multitasking, ad esempio, come stratagemma per riempire compulsivamente il nostro tempo privandoci della possibilità del vuoto e della noia che genera nuovi impulsi. L’inganno del “lavorismo, ossia l’ossessione diffusa per le performance lavorative proprie e altrui”, che molto spesso si traduce in ansia o in vero e proprio burnout.
E soprattutto, l’inganno capitalista dell’associazione valore-lavoro: “Ma com’è nata l’idea moderna di lavoro, secondo cui sembra normale vendere il proprio tempo a un datore di lavoro (come dipendenti), oppure a vari clienti (come liberi professionisti) per servizi e consulenze?”, si chiedono gli autori. Siamo immersi, in pratica, in un’“ideologia infestante” che ci ha portato alla certezza che l’attuale ordine sociale sia l’unico possibile. Abbiamo smesso di utilizzare la nostra immaginazione politica, fino a credere, in sostanza, che non ci siano alternative allo stato attuale delle cose. “Viviamo dunque nel paradosso di ritenere l’essere umano potente, intelligentissimo e creativo, ma abbiamo paura anche solo di immaginare una nuova organizzazione sociale”.
È possibile, dunque, immaginare uno scenario alternativo al nostro presente, o addirittura, più straordinariamente, costruirlo? Nel capitolo dal titolo “L’arte della diserzione”, gli autori riportano le parole di una ragazza di vent’anni intervenuta durante uno dei loro incontri pubblici: “Per esserci una diserzione ci dovrebbe essere un invito. Io credo che in molti casi la mia generazione non sia stata invitata, o se è stata invitata ha dovuto inserirsi in dinamiche che non le appartengono. Questa diserzione non è avvenuta per disinteresse, ma per non voler essere parte di un processo che riteniamo sbagliato. […] La diserzione non avviene soltanto perché abbiamo deciso di fregarcene e di pensare ad altro. Io credo che ci sia un modo diverso di cogliere il desiderio, di realizzarlo, e forse con il passaggio generazionale ci sarà un modo anche più visibile per riconoscerlo”. Sono parole che fanno venir voglia di ascoltare e osservare più da vicino questa generazione, che con gli hashtag #quitmyjob e #quittok sta condividendo i video di dimissioni reali, una manifestazione di rinuncia a un lavoro che, così com’è, non vuole più.
Il lavoro non ci ama: quale ricompensa al nostro sacrificio?
La risposta è lasciare? La risposta è ascoltare, e continuare e porre e a porsi domande. A partire però dalla constatazione pura e semplice che il lavoro non ci ama, non ci darà amore in cambio del nostro sacrificio o della nostra devozione. Ma soprattutto, spesso non ci darà nemmeno il giusto riconoscimento salariale. “Il lavoro non ti ama. O di come la devozione per il nostro lavoro ci rende esausti, sfruttati e soli” è il titolo del saggio di Sarah Jaffe pubblicato nel 2022 da Minimum Fax (traduzione di Rocco Fischetti). Il libro è il frutto di una lunga attività di ricerca avviata da Jaffe nel 2012, che ha trovato i suoi snodi fondamentali negli anni della pandemia, quelli in cui il nostro modo di approcciare il lavoro è cambiato definitivamente, talvolta con esiti nefasti e con la deflagrazione totale del tempo lavorativo nel tempo privato.
Jaffe sostiene che la percezione del valore e della produttività, nella nostra società rimane radicata in modo ostinato e interiorizzato nelle distinzioni di genere e di classe sul lavoro. Così come il lavoro manuale “maschile” incuteva maggior rispetto e gratificazione rispetto al lavoro domestico “femminile”, così la maggior parte delle professioni assistenziali sono straordinariamente sottovalutate accanto ai lavoratori della conoscenza. Durante la pandemia, d’altra parte, dovremmo aver imparato a riconoscere il ruolo chiave di certe professioni: l’esercito in prima linea del Servizio sanitario nazionale, le indispensabili professioni di cura, gli insegnanti impegnati a gestire contemporaneamente i propri figli a casa e i nostri figli su Zoom, i commessi, gli addetti ai trasporti, i fattorini, tutti coloro che hanno rischiato la salute per tenere in piedi il sistema. Come è possibile che questi lavori, di cui nessuno di noi può fare a meno e che non tutti saremmo capaci o disposti a svolgere, siano sistematicamente considerati tra i più umili in termini di ricompensa? Dovrebbe davvero essere solo il mercato a decidere quanto vale il lavoro?
Jaffe suggerisce che in questo momento storico potrebbero esserci i semi di un passaggio generazionale tra i trenta-quarantenni e i più giovani, nel riconoscere che è stata loro venduta un’idea di capitalismo che falsa completamente la realtà: sono risicate le prospettive di capitale, di alloggio, pensioni, ma anche sicurezza e tempo libero, e d’altra parte non hanno più alcuna presa gli slogan che assegnano un valore affettivo al lavoro per compensare la mancanza economica. Frasi come “I love my job, No pain no gain, Work hard, party harder” non hanno più alcuna presa su una generazione di lavoratori e lavoratrici che hanno scelto le dimissioni come strumento per difendersi.
Secondo Jaffe, al di là della naturale evoluzione della quit economy, i tempi sarebbero maturi per una comprensione più evoluta del concetto di classe operaia. Per una redistribuzione, un aumento delle tutele e una ridefinizione della solidarietà tra lavoratori (sfruttando il potere della tecnologia online) che dia nuovo vigore al potere della collettività, e faccia emergere quelle classi di lavoratori che sono rimaste invisibili solo per un vizio di forma.
L’accademico universitario con contratto a breve termine, per esempio, ha molto più in comune con il lavoratore al dettaglio o con il fattorino gig-economy di quanto si potrebbe istintivamente riconoscere. Le forze che dividono queste categorie hanno a che fare con la falsa affermazione che le ricompense emotive del lavoro siano una fonte primaria di significato in tutte le nostre vite individuali. Non è così, “work won’t love you back”. Già la Generazione X aveva compreso che il sacrificio del proprio tempo non è una moneta di scambio, e ora il testimone è stato passato ai più giovani. Conviene ammettere che spesso non sono loro a non aver voglia di lavorare. È che non sono più disposti ad accettare le condizioni proposte dalla società e dal mercato. Forse varrebbe la pena partire da qui per ricostruire.
“Il problema – scrive Sarah Jaffe – è che il nostro desiderio di felicità sul lavoro è un costrutto che ci è stato imposto ma, dato che il mondo che l’ha creato ormai sta cadendo a pezzi, abbiamo la possibilità di ripensare un mondo alternativo in cui capire cosa vogliamo veramente”.
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Titolo: “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo”
Autori: Maura Gancitano, Andrea Colamedici
Editore: HarperCollins, 2023
Prezzo: 18,50 euro
Titolo: “Il lavoro non ti ama. O di come la devozione per il nostro lavoro ci rende esausti, sfruttati e soli”
Autrice: Sarah Jaffe
Traduttore: Rocco Fischietti
Editore: minimum fax, 2022
Prezzo: 20 euro
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