#quitmyjob, meritiamo più di così

«Meritiamo più di così». Flavia Restivo, politologa ed esperta di comunicazione, l’ha scritto nero su bianco sulla sua pagina Instagram affidando alla piattaforma social il manifesto di una generazione stanca di sentirsi sfruttata e al contempo colpevolizzata. Come lei, migliaia di suoi coetanei: #quitmyjob e #quittok sono gli hashtag che accompagnano su TikTok i video con cui millennials e Gen Z filmano le loro dimissioni, condividendo in diretta la loro rinuncia a un lavoro che, così com’è, non vogliono più.

Flavia Restivo, quando il lavoro si fa molestia

«Ho lasciato il lavoro dopo 5 mesi vissuti in un ambiente tossico, fatto di urgenze costanti, straordinari non retribuiti, pause pranzo negate. Non solo, la situazione è peggiorata ulteriormente quando ho respinto gli approcci del responsabile del reparto che si sentiva in diritto di toccarmi i capelli o darmi baci sulla fronte. Mi ha reso la vita impossibile. Mi sono sentita sbagliata, sfruttata, non riuscivo più a dormire, ho cambiato le mie abitudini, ho finanche dovuto smettere di andare in terapia perché non avevo più tempo per farlo. E nonostante questo, continuavano a farmi sentire in colpa per qualsiasi cosa» racconta Flavia Restivo.

La sua non è una situazione isolata: nel 2022, l’Italia ha contato 2,2 milioni di dimissioni per salute mentale, abusi di potere, orari di lavoro massacranti, retribuzioni non adeguate, straordinari non retribuiti e, non da ultimo, molestie, secondo quanto emerge dalla nota trimestrale sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro, relativa all’ultimo trimestre 2022. «Il 76% delle lavoratrici che si dimettono hanno tra i 25 e i 40 anni – ricorda Flavia -. Il mondo del lavoro è diventato marcio. A un colloquio per una realtà importante mi è stato detto: “Sappi che i primi anni qui da noi sono fatti di lacrime, pochi soldi e tanto sudore. Non avrai altro al di fuori del lavoro”. Ovviamente, sono scappata anche da lì, ancora prima di iniziare».

E poi, per cosa? Mille euro al mese, quando va bene. Spesso, anche meno, con lavori veri camuffati da finti stage. Così Flavia ha aperto una partita Iva ed è ripartita da se stessa. «Lavoro come digital strategist, mi sono messa in proprio perché voglio scegliere io con chi collaborare e chi no. E poi, voglio avere il tempo per portare avanti le mie passioni, prima tra tutte quella politica».

Del resto, Flavia ha studiato proprio questo: Scienze politiche e di governo. «Mi sono laureata con 110 e lode, ma in questo paese sembra non esserci spazio per noi giovani. E la politica non se ne accorge forse perché è fatta molto poco da persone “reali”, che devono far quadrare i conti a fine mese, dividendo i pochi guadagni tra rette universitarie e affitto. Il precariato non è un tema di discussione reale perché non interessa a nessuno. E sarà così fino a che noi ragazzi e ragazze non avremo la voce che meritiamo» – denuncia.

Domenica Del Prete, la voce degli ultimi

Così i ragazzi provano a fare da soli e nascono realtà come 20e30, un laboratorio di empowerment per le nuove generazioni, nato per stimolare i giovani a partecipare attivamente alla costruzione di una società più equa e inclusiva, demolendo stereotipi e barriere di genere, superando paure e pregiudizi. Un progetto a cui partecipa anche Domenica Del Prete, 23 anni, laureata in Scienze internazionali diplomatiche e anche lei scappata dal suo ultimo posto di lavoro.

«Era uno stage a cui ho avuto accesso tramite il Master in Export che ho frequentato a Milano. Ho fatto quattro colloqui prima di essere assunta: mi pagavano 1,50 euro l’ora, circa 300 euro al mese, per almeno 8-10 ore di lavoro tutti i giorni. Ma ho accettato ugualmente perché l’ambito mi interessava e volevo imparare».

La situazione però è iniziata fin da subito a dimostrarsi malsana: «Era tutto dovuto, dovevamo accettare ogni tipo di vessazione a testa bassa. Inoltre, per mania di controllo, i vertici della società aizzavano volutamente le persone del team le une contro le altre. Una guerra tra ultimi senza alcun senso di esistere. Io, che nel weekend tornavo a casa, in Romagna dalla mia famiglia, per assistere mio papà che nel frattempo stava morendo di leucemia, venivo denigrata perché non lavoravo anche nel fine settimana».

Domenica inizia a stare male, malissimo. Va in terapia. Il suo mondo stava crollando. Eppure, si sentiva ripetere che i giovani non avevano voglia di fare niente, che era più semplice rassegnare le dimissioni che impegnarsi per davvero. «Ma io lavoro da quando ho 15 anni, ho fatto la babysitter, la cameriera, l’animatrice. Ho fatto le stagioni in riviera, ogni anno, lavorando a ritmi estenuanti e tutto con la speranza di poter studiare e potermi realizzare professionalmente. Milano doveva essere il compimento del mio percorso, invece ha segnato un punto di non ritorno».

Sì perché Domenica si è licenziata, è salita su un Bla Bla Car («con stipendi come il mio, anche i treni diventano inaccessibili» – ammette) ed è tornata a casa, definitivamente. Ha ripreso a studiare e ha iniziato un altro lavoro, sempre in stage, ma con una paga leggermente migliore: 500 euro al mese, anziché 300.

«Non vedo altre opportunità, al momento. Ma ho iniziato a manifestare, a entrare in associazioni come 20e30 per provare a cambiare le cose. Faccio parte di una generazione che si sente persa, che è costretta a sopravvivere ed è costantemente ignorata. Potrei andare via anche io, come fanno tanti. Ma vorrei non farlo, vorrei dare un’opportunità a me stessa e a tutti coloro che vivono la mia condizione. Soprattutto, vorrei che il lavoro tornasse a esser un diritto e non l’ennesimo luogo in cui essere messi ai margini».

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