Lavoro, l’ideologia della meritocrazia e il privilegio del talento

Ministero del Merito

È meritevole

Garantire meritocrazia

Se l’è meritato

La radice della parola “merito” e tutte le sue declinazioni appartengono di diritto agli acceleratori della scala sociale. Dai voti a scuola fino al percorso di carriera. Nella nostra società il merito è quella variabile necessaria per accrescere il proprio status e rivendicare equità.

“Vogliamo garantire inclusione, ma attenzione a non dimenticarci del merito”.

Oggi il merito è l’argomentazione che galoppa più frequentemente nei dibattiti politici e organizzativi. Molto spesso come obiezione contraria alle politiche di valorizzazione delle differenze e inclusione.

Ma se pensiamo alla storia della nostra vita il merito cos’è? Fa davvero il suo dovere? Saper rispondere a questa domanda è fondamentale per utilizzare questa parola con coscienza, intelligenza e credibilità.

Dall’aristocrazia alla meritocrazia

L’etimologia del termine deriva dal latino “meritus” (guadagno) e dal greco “Κράτος” (potere). La radice greca del termine svela la sua natura anti-aristocratica. Il merito infatti nasce per traghettare la società da un concetto di classe sociale basata sulla genetica familiare (“guadagno perché sono figlio di…”), verso un’ideologia di successo basata sul potere (“guadagno perché ho conquistato spazio, me lo sono meritato”).

Per questo la meritocrazia nasce con l’obiettivo di risolvere un problema. Ma in realtà ne crea un altro: legittima l’iniquità attraverso il presupposto per cui chi ha un talento naturale e cresce in un contesto che facilita lo sviluppo del suo potenziale merita un alto status e un grande guadagno.

L’ascesa della meritocrazia

Negli anni Cinquanta, reduci da due guerre mondiali, un mercato del lavoro in fermento e la necessità di potenziare e massimizzare l’alta formazione, due parole infiammavano il dibattito sul merito: impegno e quoziente intellettivo.

Impegno: “La misura del tuo successo è direttamente proporzionale alla fatica”. Anche se l’impegno è una variabile relativa e un po’ abusata, costringeva la società ad andare oltre le logiche clientelari.

Quoziente intellettivo: “La misura del successo è direttamente proporzionale alle tue doti logico-matematiche”. Proliferavano studi e test per valutare l’intelligenza dei talenti. Il quoziente intellettivo era la misura del genio e dell’alto potenziale. Oggi i test del QI sono sempre meno utilizzati, in quanto considerati dalla comunità scientifica come strumenti di misura non oggettivi o completi.

Lo scossone arrivò con il libro satirico “The Rise of Meritocracy” del sociologo Michael Young. Nella società immaginata da Young, il pedigree aristocratico non si stabilisce più per nascita, ma per talento. Infatti, se l’intelligenza e l’attitudine all’impegno sono ereditari, i migliori di oggi stanno crescendo i migliori di domani. Se i migliori sono ricchi avranno più strumenti per rendere i figli più intelligenti. Se i peggiori sono poveri rimarranno lì dove sono, in fondo alla scala sociale.

Se il percorso di carriera è strutturato sull’idea di un unico profilo ideale (in giacca e cravatta, con titoli di studio importanti, perennemente disponibile alla mobilità, con risorse di partenza che consentono cospicui investimenti), allora solo pochi avranno la possibilità di farcela.

È come organizzare le Olimpiadi dando ad alcuni atleti (dopati) 100 metri di vantaggio per poi consegnare ai vincitori la medaglia d’oro e sottolineare che “si sono proprio meritati la vittoria”.

Da aristocrazia per nascita ad aristocrazia per talento. Un bel modo per preservare l’iniquità.

In coda, lo psicologo Richard Herrnstein rincarò la dose: se le differenze di abilità mentali sono ereditate, se il successo richiede queste abilità, se prestigio e guadagno dipendono dal successo, lo status sociale si basa sulle differenze ereditate.

Niente da fare quindi con un’idea di merito associata alla giustizia e all’equità.

Aristocrazia dei talenti o opportunità per tutti?

E così, per correre ai ripari rispetto a una satira che faceva scricchiolare l’ideologia del merito, gli accademici proposero delle definizioni più ottimiste e soprattutto ancorate all’idea secondo cui il merito è un parametro oggettivo e misurabile.

Nel 1976 il sociologo Daniel Bell (ivi) accostò il concetto di meritocrazia alla mobilità sociale, dando una spiegazione che è la stessa che siamo soliti sentire anche nel 2023, preparando il pubblico con un “anche se” (che sappiamo essere l’inizio della fine).

“Anche se dobbiamo garantire eguaglianza rispettando tutti al di la delle loro origini e del gruppo di appartenenza, dobbiamo allocare premi iniqui in base ai diversi risultati e successi.”

Essere meritocratici, quindi, significa lasciare qualcuno indietro perché le fette della torta non sono infinite.  Il problema però è che questo qualcuno rimane lo stesso da generazioni.

Pensiamo alle donne: il gender gap sembra lontano dall’essere colmato. Come mai? Possiamo leggere e interpretare il problema e le sue soluzioni in due modi:

  1. Le donne non sono sufficientemente brave, motivo per cui non riescono a a scalare la piramide sociale allo stesso ritmo degli uomini. Questa è la lettura del problema secondo Daniel Bell e la prospettiva della meritocrazia.
  2. Le donne hanno delle condizioni di partenza svantaggiate rispetto agli uomini: l’aspettativa sociale e culturale che le vuole silenziose e poco ambiziose; il lavoro di cura non retribuito; l’abitudine familiare a investire maggiormente sui figli maschi; l’apprendimento per modellamento, che stimola meno variabili legate all’intelligenza logico-matematica (misurata dal quoziente intellettivo) e più l’intelligenza relazionale; e così via all’infinito. Questa è la lettura del problema secondo la prospettiva dell’equità.

Meritocrazia: trattare tutti in modo uguale, anche se le condizioni di partenza sono diverse.

Equità: trattare tutti in modo equo, offrendo supporti diversi a persone diverse. Perché non è equo ciò che è uguale per tutti, lo è ciò che garantisce supporti diversi a persone diverse, per assicurare che tutti siano equipaggiati al via.

A volte i due termini e le relative pratiche sono confusi o considerati sinonimi, ma rappresentano facce della medaglia diametralmente diverse.

La meritocrazia è un’ideologia

Ma la verità è che la meritocrazia è un’ideologia.

Il merito è apprezzato solo da chi la cima della scala sociale l’ha già raggiunta. È infatti probabile che alla domanda “Senti di vivere in un ambiente meritocratico?” la risposta vari a seconda se sia già stato riconosciuto il proprio talento oppure no.

La psicologa sociale Felicia Pratto, nel 1994 (ivi), ha dimostrato che sono i gruppi dominanti i più favorevoli alla meritocrazia, in coerenza con tre variabili: l’etica del lavoro protestante, la credenza che il mondo è un bel posto e tutti ottengono ciò che meritano, l’ambizione di offrire a tutti le stesse opportunità. Il presupposto dei gruppi dominanti: chi non ce la fa semplicemente non lo merita.

Infatti, se ci pensiamo, a inneggiare e pretendere meritocrazia sono soprattutto top manager e politici: chi è già accomodato sulla cima della piramide sociale.

“Non importa da dove vieni, puoi essere chiunque tu voglia. Se ti impegni hai la possibilità di scalare la piramide sociale e arrivare al top” è un racconto fallace e un motto politico. Essendo il merito fortemente legato a logiche individualiste, è diventato un claim anche per il mondo della politica.

Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito dal 1979 al 1990, utilizzava il merito come leva di mobilità sociale e equità. Il 40° presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan promuoveva l'”American Dream” evidenziando che l’unica differenza tra le persone era dettata dalla capacità individuale di determinare il proprio status all’interno della società. Ora il nostro (forma maschile, come da circolare della presidenza) presidente del Consiglio Giorgia Meloni, con il ministero dell’Istruzione e del Merito.

La politica ha iniziato a vendere agli elettori l’American Dream (anche fuori dall’America). È un racconto faticoso e frustrante. Ci rende sognatori e ci fa atterrare, nel corso della vita, su una realtà che è ben lontana dal sogno americano.

Il sogno americano e noi

Una risposta non c’è, ma abbiamo due possibilità, quando parliamo di merito:

  1. Possiamo vederlo come un sistema ideale di uguali opportunità (in cui è premiato solo chi l’opportunità la ottiene).
  2. Oppure possiamo vederlo come una giustificazione ideologica che consente alla discriminazione di essere preservata, dando per scontato che meritocrazia e intelligenza siano valutate in modo oggettivo.

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