Adolescenti in fuga, la favola nera di “Nascondino”

Foto di Marco Foglia

“Mirko, non dire a nessuno che sono qui. È il mio segreto. Da adesso anche il tuo”.
Gio si è rifugiato in una grotta, scappando dai bulli della scuola che lo costringono a leccare il pavimento dell’aula della musica, da un mondo che non comprende la sua diversità. Mirko, un ragazzo del suo stesso paese, lo trova per caso durante un’escursione alla ricerca di animali da fotografare. Comincia così “Nascondino”, spettacolo originalissimo che unisce teatro e pedagogia. Crudo, assoluto e imprevedibile come l’adolescenza. Un pugno nello stomaco, che ricorda agli spettatori l’esistenza e la fatica del corpo al tempo dell’incorporeità interconnessa dei social.

Adolescenti sono Gio e Mirko, magistralmente interpretati dal 16enne genovese Andrea Manuel Pagella e dal 17enne romano Luca Vernillo De Santis, per 75 minuti sempre sul palco, senza musiche, senza interruzioni. Adolescente è il pubblico a cui la pièce parla, che di caverne, fughe e gabbie se ne intende. Come quelle soffocanti dell’immagine, a maggior ragione se nel momento di massima trasformazione e fragilità tutto diventa esibizione, se gli spazi reali di intimità quasi scompaiono, se il narcisismo impera e il dolore si nasconde, perché l’unica faccia che si può mostrare è quella della felicità e della forza. Vecchie ossessioni – chi sono io? piaccio? sono amato? – si uniscono a nuove fissazioni: quante visualizzazioni, quanti follower, quanto seguito ha il mio video, quanti cuori la mia foto. Non si scappa alla dittatura dei like e degli smartphone. Non c’è spazio per la non conformità.

Dove irrompono allora realtà e verità? Nella grotta, dove Gio e Mirko si avvicinano e si amano, si scambiano sogni e ambizioni, si confessano. Si scoprono, come appunto si scopre un segreto, che cementa e rende complice chi lo conosce. Gio è il candore: cosciente della propria omosessualità, fragile, impaurito, provato dagli insulti e dalle umiliazioni, ma a suo modo puro. Mirko è l’ambivalenza: si abbandona alla passione, ma poi si pente, incapace di accettarsi. Il segreto condiviso libera Gio e imprigiona Mirko, che non regge. Fino alla tragedia finale.

Foto di Marco Foglia

C’è amore e c’è sangue in “Nascondino”. Ci sono baci, nudità, desiderio, omofobia, mutilazioni e morte. Ci sono i fallimenti della famiglia e della scuola. C’è l’attacco all’integrità del corpo in una scena drammatica che segna una linea di confine: il rapporto tra Gio e Mirko è andato oltre, il lieto fine non è più possibile. C’è l’eterno contrasto tra la ricerca della propria identità e la dipendenza dal giudizio altrui. In questa favola nera nulla è scontato e nulla è rassicurante. D’altronde, che cosa c’è di rassicurante nella metamorfosi, quando il corpo si trasforma e urla, quando non si è più bambini ma non ancora adulti? Ecco perché scuote, ecco perché turba. “L’adolescenza è come un cactus”, disse la scrittrice Anaïs Nin. Una spinosa seconda nascita. Montagne russe. Dopo la pandemia e i lockdown, poi, un viaggio spesso doloroso.

Il testo di Tobia Rossi ha vinto il Mario Fratti Award 2019 e ha debuttato a New York presso l’Italian Cultural Institute con il titolo “Hide and seek”. In Italia è arrivato nel 2021 grazie alla sinergia tra la Montessori Brescia Cooperativa sociale Onlus presieduta da Rosa Giudetti e l’associazione culturale “i perFormers”, con la regia di Fabio Marchisio, la produzione di Giuseppe Di Falco e le musiche di Eleonora Beddini. Approdato a Roma al Teatro Lo Spazio dal 14 al 19 febbraio, “Nascondino” sarà il 26 febbraio al Teatro Cardinal Massaia di Torino, il 26-27 marzo al Cinema Teatro Busan di Mogliano Veneto e il 28 marzo a Treviso in una scuola. Probabile una replica a Milano, per poi tornare in autunno dove tutto è cominciato: a Brescia, al Teatro Sociale.

“Quello che si mostra nello spazio di questo spettacolo – spiega  Raffaele Mantegazza, docente di scienze umane e pedagogiche al Dipartimento di medicina dell’Università Bicocca di Milano, che ha curato il progetto pedagogico – è un microcosmo dell’adolescenza e di tutte le sue difficoltà in un mondo che giudica, etichetta, condanna ma non capisce e forse soprattutto non ama. Una piccola grande tragedia che unisce e divide due sensibilità attraverso la carnalità delle loro presenze, recuperata e persa al di là dell’invasione degli schermi”.

“‘Nascondino’ è un grande sogno che si è fatto prima progetto e poi è diventato realtà”, racconta Rosa Giudetti. “Una scommessa, quella di unire la pedagogia al teatro sin dal casting, che si è rivelata vincente. Perché il teatro con la sua immensa capacità attrattiva, il suo incanto e la sua magia, ha un potere salvifico, che può esserci di conforto e di aiuto. In questo caso, sostiene il nostro impegno nella difesa dei diritti civili dei bambini e degli adolescenti”.

All’uscita della rappresentazione romana, un’insegnante ha commentato: “In ‘Nascondino’ la caverna è quella fuori”. Il mito di Platone è effettivamente rovesciato: è nella grotta, nello spazio ristretto in cui si mescolano odori e pregiudizi, che ci si libera dalle catene. Mirko si guarda allo specchio e vede Gio. Ma non riesce a risalire in superficie, a far uscire allo scoperto (fisicamente e metaforicamente) il vero sé stesso. È all’esterno che sembra regnare il buio, che sembrano con ferocia dominare le maschere.

Non è un caso che Elena, spettatrice 14enne, abbia sintetizzato così il suo giudizio sullo spettacolo: “Bellissimo e molto forte. Non credo che tutti siano pronti a vederlo. Anche gli adulti”. E invece va visto, possibilmente insieme, possibilmente discutendone prima e dopo come prevede il progetto: ragazze e ragazzi, genitori, insegnanti, educatori ed educatrici. Assieme a Jung, ci piace pensare alla grotta come archetipo dell’utero materno, luogo di esplorazione delle proprie luci e ombre. Che l’autenticità oggi sia lì, nel gioco della (ri)scoperta – femminile – del corpo e della terra? Un monito per tutti noi, non solo per gli adolescenti, affinché impariamo ad accettarci e ad accoglierci. Per accettare e accogliere l’Altro.

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