Maternità, serve il coraggio di dichiararsi fragili

Ho trascorso l’ultimo anno della mia vita a fare – quasi esclusivamente – la mamma. Prima della nascita di mia figlia non sapevo nemmeno immaginare questa dimensione, questo mondo chiamato maternità.

Della vita delle mamme e dei loro figli conoscevo ben poco, anzi quasi niente, pur avendone ovviamente fatto esperienza quando la bambina ero io. Ma – sembra quasi banale scriverlo – tua madre, finchè madre non lo diventi a tua volta, non riesci a guardarla con quegli occhi nuovi che ti si aprono sul mondo dopo esserci passata. Oggi, che è trascorso poco più di un anno dall’arrivo di Bianca nella nostra vita posso dire che questi primi 12 mesi sono stati il viaggio più incredibile, difficile e bello che abbia mai fatto.

Scoprirsi diverse

In questo tempo che a volte è sembrato non trascorrere mai e a volte invece passare velocissimo, ho scoperto cose di me e degli altri che non conoscevo. Mi sono vista fortissima nel parto e fragilissima subito dopo. Mi sono scoperta una fermezza che non immaginavo di possedere e che è uscita quasi d’istinto quando mi sono trovata sola, in una città che non è quella dove sono nata e cresciuta (e dove avrei la mia famiglia e i miei affetti) ad accudire mia figlia, aiutata solo da mio marito.

Ma ho conosciuto anche una Silvia cupa, cieca a volte, incapace di leggere la realtà che le stava intorno perché sopraffatta da quello che le stava accadendo, dalle energie tutte drenate solo su quel piccolo essere umano che deve crescere grazie a te.

Cosa significa essere mamma?

In questi mesi ho riflettuto tanto su cosa significa per me essere madre e su cosa mi sembra invece che significhi per il Paese e la società in cui vivo. Mi sono chiesta se le esperienze che ho vissuto e sto vivendo, i bisogni che io e la mia nuova famiglia abbiamo avuto trovino davvero una risposta nel contesto in cui siamo inseriti e purtroppo la risposta è stata quasi sempre negativa. Anche la cronaca di questo ultimo anno mi sembra abbia mostrato più che in passato questo scollamento e questo disagio.

Dalle dichiarazioni di Elisabetta Franchi, passando per la terribile storia della bambina abbandonata in casa dalla madre della scorsa estate, fino ad arrivare alla morte del neonato all’ospedale Pertini, mi sembra che l’ultimo anno sia stato costellato di vicende che mostrano quanto la politica, le istituzioni e l’opinione pubblica sappiano ancora pochissimo di cosa significhi davvero essere madre, di quali siano le necessità di una madre, la sua nuova vita, i suoi bisogni e anche e soprattutto i suoi problemi. O forse lo sanno ma non gli importa.

L’impressione che ho avuto è che il mondo delle madri sia una bolla in cui ti affacci quando inizi a chiederti quale passeggino prendere e in cui vieni spinta a forza subito dopo il parto.
Sì perché i primissimi giorni dopo il parto sono un luogo e un tempo che non ha una vera dimensione o forse ne ha una tutta sua che non assomiglia a nessun’altra si possa sperimentare nella vita. Nulla a che vedere con il tempo lento e pigro di quando si attende di essere sottoposti a un intervento o quando si langue nel letto dopo che l’operazione è avvenuta.

Dopo il parto

I primi giorni dopo il parto sono il tunnel, la porta di accesso a una dimensione che non ha eguali, dove alla tua normalità se ne sostituisce un’altra che all’inizio tanto normale non sembra. O almeno per me è stato così.

I 3 giorni, che in genere si trascorrono in ospedale, sono stati come un’allucinazione lunga fatta di tenerezza e paura, di occhi sbarrati a controllare se respira e piedi malfermi per la tanta stanchezza. Questo perché ho scelto una struttura che – come accade ormai in quasi tutti gli ospedali italiani – non dà la possibilità di portare i neonati al nido ma prevede che dalla nascita alle dimissioni stiano solo con la mamma, in camera con lei.

L’ho scelto io perché, mi ero detta, sarei stata costretta a imparare subito come gestire quel frugoletto avvolto come un involtino primavera che si lagnava di fronte a me. Diciamo pure che le cose sono state un po’ più complicate di come avevo ingenuamente previsto e che, con il senno del poi, comprendo benissimo come possano accadere tragedie come quelle dell’ospedale Pertini di Roma.

Avere il proprio piccolo o la propria piccola sempre con sé significa infatti non riposare (quasi) mai e non avere un attimo per fare quelle cose banali e fino a poche ore prima sottovalutatissime come lavarsi il viso e i denti. Ecco se dovessi dire cosa sono stati i primi mesi da mamma per me direi che sono stati (anche) la scommessa quotidiana sulla capacità di arrivare a sera con almeno i denti lavati.

Mi si potrebbe obiettare che con i primi figli è sempre così, che non sai bene quello che ti aspetta, che è normale. Tutto vero.

Sta di fatto che pensare di lavorare, trovare il tempo per rispondere a un’email o semplicemente avere la lucidità e la concentrazione per pensare a cose più complesse dei bisogni di mia figlia e di qualcuno (nemmeno tutti) dei miei era impossibile.

E la situazione non è migliorata al ritorno a casa. Le prime 2 settimane dopo il parto sono state qualcosa che io non avevo nemmeno lontanamente immaginato. Si passa la gravidanza a prepararsi al parto, a fare corsi preparto, consulenze sul pavimento pelvico (che per carità è importantissimo), esercizi di respirazione per gestire le contrazioni (anche questi fondamentali), corsi di canto per il travaglio ma mai nessuno che ti insegni quello che avresti bisogno di sapere dopo. Perché è dopo che si apre un mondo nuovo di cui tu, neomamma, non conosci la geografia.

La mancanza di sé

Ricordo che il parto mi era da subito sembrata una passeggiata rispetto a quel senso di spaesamento e a quell’iper sensibilità che mi pervadeva tutta e che mi faceva percepire quello che mi accadeva intorno in maniera superlativa: tutto -issimo. Cantare una canzone dolce a mia figlia mi provocava un’emozione tale da scoppiare a piangere. Non riuscire a lavarle il sederino in maniera impeccabile mi gettava in uno sconforto profondissimo. Ma la cosa che più mi sconvolgeva erano quei pensieri che non si ha nemmeno il coraggio di ripetere. Quel senso di perdita anche se reggi tra le braccia la conquista più grande. Quel desiderio vergognoso di tornare almeno per mezz’ora alla vita di prima. La nostalgia del tempo perso, l’istinto di fuggire, la mancanza di me.

Sono queste le cose che ci si confessa tra madri solo a mezza bocca e con una certa riluttanza. Forse perché è uno stato d’animo che, nella maggior parte dei casi, passa in fretta e lascia spazio a un amore che liquefà ogni tua cellula, anche quando non dormi o perdi la cognizione del tempo a forza di cullare.

Eppure sono stati giorni reali, pesanti, plumbei come il cielo di quella metà di dicembre che sembrava non passare più.

È possibile quindi, mi chiedo, lavorare, essere produttive, socialmente presentabili in quei giorni come pretenderebbero le organizzazioni per le quali la maternità delle dipendenti è solo un peso? Nel mio caso la risposta è no, ma non escludo che possa esserci chi ce la fa. Mia madre per esempio racconta che a una settimana dal parto era in ufficio a lavorare con me in carrozzina di fianco alla scrivania. Lo fece perché lo desiderava o perché lo riteneva la cosa giusta da fare? No. Le tocco farlo perché essendo una lavoratrice autonoma non aveva chi potesse sostituirla a lavoro e forse non avrebbe nemmeno osato chiederlo.

Lo specchio distorto dei social

Ma è davvero così che dovrebbero andare i primi giorni di una donna che diventa madre? Si tratta davvero solo di entrare in ospedale, aprire le gambe, spingere, farsi dare qualche punto e tornare alla vita di prima?

Ripeto, se dovessi guardare alla mia unica esperienza direi assolutamente no. La maternità ti scuote così profondamente da farti perdere i punti di riferimento, da toglierti il respiro o darti una quantità di aria che il tuo corpo non sa nemmeno gestire.

Ma è per tutte così?
Questa è una domanda che mi sono fatta tante volte nei primi mesi dopo il parto e che, prima con timore poi con maggiore confidenza, ho rivolto alle mie amiche e conoscenti che come me stavano vivendo questa fase della vita.

Volevo sapere se quello che provavo io, i dubbi che avevo, i problemi che affrontavo erano solo miei o condivisi perché da quella condivisione dipendeva tanta parte della mia serenità. “Capita anche a tizia”, “Anche il figlio di caia fa esattamente così”, sono frasi che ti risollevano in certi momenti.

Parlare con le altre neomamme mi confortava rispetto a quello che vedevo in quella piccola e spesso fuorviante finestra sul mondo che sono i social. Lì ho visto una maternità completamente diversa da quella che stavo vivendo, come se esistessero due modi di essere madre: quello delle persone normali e quello delle persone più o meno famose.

Qualcuno potrebbe dire che ho scoperto l’acqua calda. Vero, ma solo in parte perché quando ti trascini con lo stesso pigiama da una settimana, non ti ricordi quando hai fatto l’ultima doccia e tua figlia non si sa perché non vuole attaccarsi al seno e strilla e urla, è in quei momenti che la lucidità per dirti che quello che vedi su Instagram è solo finzione viene meno.

Così inizi a chiederti perché per loro allattare è così facile. Ma come fanno, ti dici, a camminare con il bambino attaccato al seno, truccate di tutto punto mentre tu ancora hai bisogno di 5 minuti per fare l’accrocco di cuscini propedeutici a iniziare ad allattare.
E poi la più banale delle domande: ma come fanno ad avere i capelli lavati e pettinati?
La maternità mi ha insegnato che bisogna essere clementi con le mamme e che i giudizi vanno lasciati fuori dalle porte delle case di queste nuove famiglie.

Allo stesso modo andrebbero dosate con cautela queste epopee di madri che riescono a fare tutto.Non dico che non sia bello vedere immagini di madri gioiose, belle, serene, che stringono pargoli altrettanti belli e sereni e che contemporaneamente riescono a lavorare, a uscire a cena, ad allattare in ogni luogo. Penso però che non bisognerebbe mai dimenticare che ci sono tanti modi di vivere la maternità quante sono le mamme. Non c’è un modo giusto è uno sbagliato, come non c’è un tempo massimo oltre il quale bisogna a tutti i costi recuperare la serenità e l’operatività.

Quando si torna alla “normalità”?

Si può lavorare se si riesce e si vuole. Allo stesso modo si può aver bisogno di tempo e silenzio per ritrovarsi dopo aver dato la vita a qualcun altro. Si può essere cosi stanche da non riuscire a fare niente di ciò che ci si era prefissate, o così piene di energia da riuscite a fare il triplo di cose rispetto a prima. Non c’è una regola.

In questi mesi ho incontrato mamme così tranquille da affrontare fin da subito lunghi viaggi con neonati al seguito e altre così intimorire da non riuscire nemmeno a fare una passeggiata vicino a casa. Io per prima mi sono trovata a vivere come sfide cose prima impensabili: la prima uscita in auto da sole, la prima spesa al supermercato, il primo viaggio in treno. Ognuna di queste situazioni mi ha messa alla prova e per affrontarle mi sono imposta un coraggio e una spavalderia che non sempre avevo ma che ho voluto per non rimanere bloccata nelle sabbie mobili della paura.

In genere invece chi racconta la propria maternità sui social mostra solo il lato bello: il bambino sorridente, lei bella e in ordine, il papà che spinge la carrozzina. Tutto perfetto, tutto al posto giusto. Lì non vedi mai le giornate interminabili quando tua figlia piange e piange e non sai perché. E nemmeno quelle in cui vorresti anche solo mezz’ora per te. Sui social non si vede mai chi consente che tizia abbia la piega perfetta, chi ha cullato per ore quel bambino che sicuramente piange e fatica ad abituarsi al mondo proprio come il tuo, prima di darlo a lei per la foto di rito. Nessuno ti fa vedere chi porta e riprende il neonato alla professionista dopo la poppata.

Il coraggio di dichiararsi fragile

Sui social non c’è la fatica, i dubbi, le paure, l’insicurezza di chi stringe un bambino per la prima volta tra le braccia e vorrebbe fare solo il meglio ma nel tentativo esasperato di non sbagliare nulla finisce per perdersi il bello che c’è. Non abbiamo bisogno di modelli di mamme perfette e nemmeno di quelli dichiaratamente imperfette.

Avremmo forse bisogno solo di qualcuno che abbia il coraggio di dichiararsi fragile come noi, sola come noi, felice a giorni alterni come noi, spaesata, confusa. Qualcuno che racconti che dopo il parto non sempre si riesce ad accudire il proprio figlio e che tuttavia nella maggior parte delle strutture sanitarie ti viene risposto “arrangiati”. È successo a me, è successo alle mie amiche, alle ragazze del corso preparto. Saremo forse tutte un caso isolato?

Qualcuno che ammetta che avere a che fare con un neonato è un quotidiano esercizio di equilibrismo: quando credi di aver raggiunto un punto di equilibrio e che tuo figlio abbia finalmente dei ritmi e delle abitudini prevedibili, cambia tutto di nuovo. Qualcuno che sappia davvero cosa vuol dire occuparsi di un bambino e che non decanti l’operosità recuperata in tempo zero come una virtù. Qualcuno che non pensi che 5 mesi di maternità siano sufficienti o che 2 ore di allattamento siano ciò che basta a un neonato. Qualcuno che ammetta che se non hai una rete familiare che ti aiuta o i soldi per pagare quegli aiuti, fare la mamma è un salita continua, una sfida per arrivare a sera cercando di perderti meno pezzi possibili lungo il cammino.

Chi sia questo qualcuno in un Paese come il nostro dove le strade sono impraticabili per i passeggini e sulla metropolitana della capitale (e nemmeno in molti consultori) non esistono ascensori; dove ci si aspetta che a 3 mesi un bambino sia così grande da potersi staccare dalla madre che deve tornare al lavoro o che a lei bastino pochi minuti per allattarlo; dove i professionisti sanitari che si prendono cura di te e della tua nuova fragilità sembrano scarseggiare e dove quando hai bisogno di consigli e di aiuto per crescere tuo figlio sembra che l’unica strada siano costosi pseudo-professionisti che si auto-pubblicizzano sui social; dove l’asilo costa anche 800 euro al mese e i bonus diventano subito pochi spiccioli; ecco, chi sappia raccontare e soprattutto cambiare tutto questo io nel nostro Paese proprio non lo so, ma mi piacerebbe davvero tanto scoprirlo.

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