Paolo ha 28 anni, da 3 anni lavora per una multinazionale della consulenza e si sente terribilmente solo. Nella sua azienda, la possibilità di lavorare “fully remote” è considerata un’importante leva di attrazione dei talenti, e le persone vanno in ufficio al massimo una volta a settimana. Chi già si conosceva è riuscito a mantenere le relazioni che aveva, ma chi avrebbe dovuto crearne di nuove si è perduto.
Non aver mai conosciuto i colleghi
Un’intera generazione di lavoratori che ha fatto il suo ingresso nel mondo del lavoro con la pandemia non sa come né quando ricavare dal proprio lavoro una dimensione identitaria, una dimensione sociale. Manca la consuetudine a vedersi senza un perché: a riunirsi in un luogo comune senza uno scopo immediato, giorno dopo giorno, cosicché avvengano tutte quelle circostanze casuali e spontanee che creano i legami. Ci sono le relazioni lavorative, strumentali alla realizzazione dei progetti, ma iniziano e finiscono lì, con i progetti. Non c’è modo, nemmeno con le tecnologie più sofisticate, di riprodurre quel senso di vicinanza noncurante che fa fiorire curiosità e opportunità, che nutre il nostro essere sociali: il saluto per le scale, la sosta alla navetta, lo scambio di un caffè, la pausa pranzo.
Simbolo più evidente di questa povertà relazionale sono i momenti di inizio delle riunioni: se nella vita reale si prolungano in convenevoli su famiglia, hobby e tifoseria, da remoto diventano invece lunghi silenzi imbarazzati, l’occhio ancora alle email fino all’ultimo secondo utile.
Lavoro: do ut des
Dovremmo preoccuparci, tutti noi della generazione X, per quel che stiamo lasciando a questi giovani come unica possibilità di scelta. Gli stiamo dando un concetto di lavoro di cui è rimasto solo l’aspetto specialistico, processuale: un lavoro, insomma, a cui basta un PC. La conseguenza è evidente, pur essendo un fenomeno ancora recente: una volta tolta la dimensione identitaria e sociale, il lavoro diventa puramente un do ut des, tante ore fuori, tanti soldi dentro. Difficile influire su benessere e senso di appartenenza di chi passa quattro giorni su cinque da solo a casa propria. Ma c’è anche una seconda conseguenza, molto più nefasta e di lungo termine:
“Senza un posto dove andare, ma con il solito numero di obblighi professionali, le persone che lavorano da casa possono avere la flessibilità per fare tutto tranne nuove amicizie”, commenta Amanda Mull su L’Atlantic.
Si lavora quindi, e anche tanto, ma senza gioia: si lavora in solitudine.
Una dose di libertà era necessaria: da tempo si lottava per avere più flessibilità di orari e di modi e ancora di strada ce n’è da fare, per quanto riguarda la vecchia mentalità del presenzialismo – e si tratta di un lavoro culturale, non tecnologico – ma lavorare sempre da casa è vera libertà?
Un decennio fa, la sperimentazione in ambito smart working aveva visto nascere i primi spazi di coworking: si ragionava di uffici organizzati con tutti i confort, disponibili per professionisti di aziende che si trovassero in zona. Sicuramente utili per i free lance, sono stati luoghi di sperimentazione anche per le organizzazioni che volevano evitare ai propri lavoratori un pesante commuting quotidiano, dando loro tutti gli strumenti per lavorare e anche la possibilità di socializzare e mettere in comune servizi come l’asilo nido e la mensa.
Adesso, paradossalmente, se ne parla molto meno: perché sostenere i costi di un qualsiasi luogo di lavoro, quando le persone possono stare comodamente a casa? Già, perché?
Dove cerchiamo il senso di identità?
Il full remote – o quasi – ha l’aspetto di una scelta di fiducia e di un dono di libertà. Tolti gli oneri immobiliari, alle aziende non resta che settare gli obiettivi e contare le ore-lavoro, come nel più tradizionale dei telelavori. Alle persone rimaste isolate, seppur sempre connesse a schermi che scandiscono le ore con la precisione di un orologio digitale, non resta che cercare “altrove” quel calore umano e quel senso di identità che luoghi e relazioni portavano in dote all’esperienza professionale.
Tempo per farlo però non ce n’è molto, e la scienza ha spiegato con chiarezza che nessun canale social soddisfa il bisogno di contatto umano. Anche scrollare, postare e segnalare la propria presenza non basta, occorre proprio uscire di casa: inventare con slancio nuovi luoghi e nuove abitudini e puntare su di essi per colmare quel vuoto di senso che l’isolamento comporta, cercare lì quel senso di identità che il lavoro non dà più.
Per chi proprio non ce la fa, a trovare un senso, le aziende intanto si stanno attrezzando: a disposizione uno psicologo (online), con cui condividere lo smarrimento e la tristezza. Per fortuna non mancano mai i rimedi a valle per curare i problemi che a monte nessuno pensa più di poter risolvere.
***
La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.
Per scrivere alla redazione di Alley Oop l’indirizzo mail è alleyoop@ilsole24ore.com