Tutte le vite dentro una vita: come fare spazio dopo un dolore

Ci sono eventi nella vita che fanno da spartiacque, da punto di arrivo e di ripartenza insieme. Un trauma, un lutto è sicuramente uno tra quelli. C’è chi si ferma e stenta a proseguire, aggrappato al rimpianto, al ricordo, al dolore. E c’è chi, seppure legato con un filo invisibile che non reciderà mai, decide di andare avanti, di onorare quella vita costruita anche con e grazie alla persona che è venuta a mancare. Claudio Prizio, protagonista e narratore di questa storia apparentemente senza trama, perde la sua compagna, G., a seguito di una grave malattia, e si ritrova con una vita nuova fra le mani, una nuova compagna, Agata, e una nuova casa.

Nel romanzo “Vite mie” (Mondadori) di Yari Selvetella la continuità con il passato, dopo che un’accetta invisibile sembra aver tagliato il filo, è tangibile: sono i figli, di G., e di G. e Claudio (nelle vite “prima”) e i figli di Claudio e Agata (la vita “dopo”); e sono oggetti, ricordi, agende, ritagli, foto, che il protagonista tira fuori da un baule e sparpaglia, nascondendoli, nei luoghi significativi di una città in cui tutto si stratifica, da secoli. Costruisce così una mappa di effetti (della storia su un assetto che trova ordine nel caos) e affetti (di chi la vive e la sceglie ogni giorno, nonostante tutto).

Selvetella è tutto ciò che si immagina sia uno scrittore, una persona con un talento raro, e la capacità di osservare la realtà. Sa tradurre un sentimento, una sensazione, in frasi, immagini, periodi, riflessioni da sottolineare, con la matita e con la mente.
Ci si ritrova a pensare che l’autore stia raccontando una parte della vita di chi incontra le sue pagine, e che stia accompagnando il lettore in un percorso tracciato dai suoi passi, o dagli indizi che pazientemente dissemina, anche lungo le pagine, oltre che nel corso della storia.

Fulcro del romanzo diventa una famiglia eccezionale, allargata fino all’estremo; una piccola comunità accogliente, che spalanca le braccia anche ai lettori, lasciandoli entrare nell’intimità più profonda. Ed è qui, fra le pareti di una casa in cui l’autore si trova a vivere per caso (era la casa di Agata, in pieno centro storico), che si scopre la “normalità”, si incrociano le paure quotidiane, i dubbi, le incertezze, prima fra tutte l’incapacità – a detta del protagonista, che lo dichiara nel suo incipit dirompente, di quelli che ti inchiodano al romanzo – di amare:

“Non so più amare, chiedo perdono a tutti. Prima provo a pensarlo, poi a dirlo sottovoce, poi per convincermene aggiungo il pronome: io non so, io non so più amare.
Forse perché ci si aspetta che amare significhi impegnarsi in imprese eccezionali, dimostrare una propensione alla cura e all’amore, appunto, incredibile. E invece amare può voler dire semplicemente preparare la colazione mentre tutti dormono, essere
quello che domanda ai figli se hanno indossato la sciarpa, quello che ieri squagliava la pappa alla tapioca e oggi compra bistecche di Angus argentino per il solo gusto di ascoltare il suono di quella parola pronunciata dai figli carnivori […] e trovare così, in quella formula magica, la conferma che tutto va bene”.

Amare è accettare, accompagnare il tempo che passa, con tutto il carico di gioie, ma anche dolori, atroci, sofferenze e separazioni – anche quella, sospesa fra gioia e dolore, dei figli che crescono – che sono il conto da pagare in ogni esistenza. Accettare il cambiamento, che in questo romanzo è un processo non solo spirituale ma anche materiale. E il cambiamento, nel caso di Claudio e Agata, parte dalla ricerca di una nuova casa, in una Roma che appare governabile solo se immaginata e percepita come tante piccole città, rappresentate dai suoi innumerevoli quartieri.

Ogni taglio più o meno netto con il passato sembra uno strappo, a volte insostenibile; poi arrivano le parole di Yari, quasi sul finale del romanzo, che sono una dichiarazione d’amore forte, potentissima, di quell’amore che germoglia nelle persone, cresce e si diffonde, avvolge tutti, anche quando quelle persone non ci sono più:

“Guardo i ragazzi con stupore, spesso. Sono cresciuti davvero, si sono fatti uomini senza maledire il mondo. Almeno finora. Li ho accompagnati io, li hanno aiutati in tanti: Agata, i parenti, gli amici. Ma senza quella strategia iniziale, senza quella determinazione, non sarebbe stato possibile. G. era al centro di decine di relazioni, eppure quando lei si è dovuta sfilare da questa matassa alcune di esse non si sono esaurite, anzi si sono rafforzate, hanno coinvolto altre persone, hanno assunto maggiore profondità, sono state rese migliori da altri, che nemmeno lei conosceva.
[…] Tutto cambia, eppure anche l’eco di una voce può appartenere al presente”.

I libri di Yari Selvetella si prestano a innumerevoli livelli di lettura; ognuno trova la propria strada da seguire, sulla base delle tracce che l’autore disegna; si può procedere lungo la via del riscatto dal dolore, fermarsi a considerare quanto sia importante ricordare, ma anche lasciar andare, affidando la memoria a qualcosa di esterno (lui che nasconde i ricordi in città in realtà non se ne disfa completamente); si può leggere l’ansia, l’ineluttabilità degli eventi che, soprattutto quando si hanno figli e si è passati attraverso la malattia, e la morte, è inevitabile. Oppure distrarsi con ossessioni che aiutano, forse, a leggersi dentro giocando anche per paradossi (il protagonista si rispecchia nelle persone che incontra, talmente tanto da convincersi di una somiglianza fisica con tante di esse).

“Vite mie” è un’esperienza da vivere a strati, uno sopra l’altro, in modo che le emozioni rimangano nascoste fra le pieghe della pelle e sedimentino nel tempo.

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Titolo: “Vite mie”
Autore: Yari Selvetella
Editore: Mondadori, 2022
Prezzo: 18,50 euro

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  • Monica Mazzitelli |

    Una bellissima recensione di un romanzo straordinario. Brava Francesca, come sempre.

  • Monica Mazzitelli |

    Bellissima recensione, come sempre, di un libro potentissimo!

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