Nessuno ti può giudicare se sei uno, nessuno e centomila

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Noi esseri umani siamo terribilmente complessi. Anche i più giovani e i più anziani, quelli apparentemente più semplici o quelli con la vita più noiosa: siamo complessi perché siamo in grado di tenere traccia nel tempo e nello spazio delle molte cose che sappiamo, vogliamo e siamo meglio di qualunque altro essere vivente. La consapevolezza del contesto ci mette infatti nella condizione di interpretare ogni avvenimento in modo relativo: e questo insieme in continua trasformazione di punti di vista, interpretazioni e qualità di presenza rende la nostra realtà incredibilmente variegata e moltiplica all’infinito il numero delle possibili combinazioni tra quel che vediamo noi e quel che vedono gli altri.

Le nostre interazioni quotidiane con gli altri sono insomma un vero e proprio “scontro di mondi”, la cui entropia viene ridotta solo dalla condivisione di regole comuni. Ma, mentre appare intuitivo accettare che nell’incontro tra noi e l’altro vi sia una combinazione di differenti prospettive, è meno diffusa la consapevolezza di quanto la nostra stessa percezione di noi stessi vari nello spazio e nel tempo, risultando spesso in un compromesso tra visioni, aspettative e percezioni differenti.

Siamo diversi “sé” nello spazio perché portiamo diverse dimensioni identitarie a seconda del ruolo che vestiamo, e questo è spesso condizionato dal luogo in cui siamo. Proprio come quando indossiamo un abito adatto a una certa occasione, così anche a livello identitario possiamo cambiare atteggiamento, capacità e persino mentalità quando siamo in circostanze diverse. Non si tratta di fingere o di mentire: indossare identità diverse è così comune e “normale” che vi sono interi filoni di ricerca dedicati a come questi diversi sé poi si combinino, sovrapponendosi o confliggendo gli uni con gli altri, per dare luogo a una coerenza complessiva, a una sorta di “identità aggregata”.

La psicologia, per esempio, studia le strategie cognitive che individui diversi mettono in campo per gestire questa complessità di sé: separare le dimensioni in modo netto oppure tenerle insieme, entrambi gli approcci hanno pro e contro e diverse culture spingono in una o nell’altra direzione. Le scelte che la nostra mente fa quando ci spostiamo da un luogo all’altro – o da un ruolo all’altro – hanno un effetto sul livello di fatica e di efficacia che sperimentiamo: se anche nella maggior parte dei casi sono scelte implicite, che non avvengono a livello consapevole, il loro impatto è invece evidente e può aiutarci a valutare se stiamo usando una strategia funzionale al nostro benessere.

Lo spostamento tra i sé diventa più visibile nei momenti di passaggio: dal sé in vacanza al sé al lavoro, per esempio. In modo molto pratico, basta guardare a come cambia il modo in cui pensiamo al cibo, al sonno o alle relazioni quando indossiamo l’uno o l’altro cappello. Siamo sempre la stessa persona e l’oggetto della riflessione è lo stesso, ma la prospettiva lo trasforma radicalmente, e così cambia il nostro modo di comportarci e le sue conseguenze. L’elaborazione avviene interamente nella nostra mente, mentre le conseguenze in termini di scelte e comportamenti danno forma alla nostra realtà. Questo per quanto riguarda il sé nello spazio, o per meglio dire il sé nei diversi ruoli che ricopriamo ogni giorno.

Sarebbe già abbastanza complesso così, ma non basta. La mente umana ha una caratteristica unica, che genera un altro insieme di dimensioni identitarie: si tratta del senso della possibilità. Di base, la nostra mente immagina continuamente la realtà: è come se, sullo sfondo di quel che vede e comprende, essa immaginasse diverse versioni di realtà e le comparasse continuamente con la realtà vera, facendo aggiustamenti e percependo, in fondo, solo gli scostamenti. Questa capacità di immaginazione ha tre conseguenze importanti sul modo in cui viviamo:

1. è per noi una fonte di risparmio energetico – evidentemente ci costa meno creare le cose nella nostra testa che comprenderle ogni volta come se ci trovassimo di fronte a qualcosa di nuovo;

2. è anche all’origine di molti stereotipi – perché gli schemi fissi diminuiscono lo sforzo di comprensione, ma al tempo stesso riducono lo spazio per le differenze;

3. ha un effetto collaterale importante anche sulla nostra percezione di noi stessi, perché usiamo l’immaginazione anche per proiettare dei sé possibili e poi metterli a confronto con quel che siamo in realtà.

I sé possibili esistono non tanto nello spazio quanto nel tempo. Nel corso della nostra vita, abbiamo infatti dovuto abbandonare delle idee di noi: di quel che avremmo voluto o potuto essere e non siamo diventati. Sono i nostri possibili sé passati, che come il fantasma del Natale Passato di Scrooge, restano comunque con noi sotto forma di rimpianto, desiderio, nostalgia di quel che avrebbe potuto essere, apparendoci a volte anche più vividi dei ricordi, perché nella nostra immaginazione non hanno dovuto confrontarsi con la realtà. I nostri possibili sé passati sono compagni di viaggio che abbiamo frequentato solo nella nostra immaginazione: che abbiamo amato nel loro potenziale e poi, col senno di poi, abbiamo scoperto di aver perso.

Come ci fanno sentire, che cosa proviamo per quella parte di noi che “non è stata”? Fa infatti una grande differenza, per il modo in cui vediamo noi stessi nel presente, se siamo in pace con quella parte della nostra identità, se vi dialoghiamo e se lo facciamo con una forma di tenerezza, se ci perdoniamo insomma per quel che abbiamo perso o mai raggiunto.

E poi ci sono i possibili sé futuri. Forse non li abbiamo sempre in mente, ma sono una proiezione tipica dei momenti di transizione. Succede qualcosa nella nostra vita – o cambia semplicemente una stagione – e la nostra mente reagisce proiettando diverse possibilità di sé. Sarò una studentessa di successo al liceo classico, sarò la madre soddisfatta di un’adolescente realizzata, sarò un pensionato che riempirà il proprio tempo di passioni, sarò un manager che porterà grandi risultati: si tratta di veri e propri “tagli” di pensiero sulla nostra identità in evoluzione che difficilmente diventeranno reali, ma che sono comunque importanti nel dare una direzione alla nostra vita.

Tanto è vero che, nei momenti più difficili, non ne troviamo nessuno. Nei momenti difficili e quando siamo stanchi, non riusciamo a immaginare chi diventeremo. Pensiamo anzi che farlo sia una perdita di tempo, che tanto sarà il destino a decidere per noi. I possibili sé futuri sono l’espressione della nostra percezione di libertà e auto determinazione: quando il contesto le riduce, anch’essi si riducono a delle ombre che riusciamo a malapena ad intuire. I nostri possibili sé futuri sono dei compagni di viaggio con cui dialogare, pur sapendo che quelli di loro che diventeranno reali saranno ben diversi dal nostro immaginario: se abbiamo fatto pace con i possibili sé passati che non siamo stati, anche fallire i sé futuri ci farà meno paura e saremo più liberi di immaginarli.

Gli esseri umani sono terribilmente complessi. Anche i più giovani e i più anziani, quelli apparentemente più semplici o quelli con la vita più noiosa: tutti vestiamo contemporaneamente un numero indefinito di sé che riguardano tutte le cose siamo, tutte quelle che avremmo potuto essere e tutte quelle che vorremmo essere in futuro. Sono dimensioni identitarie di noi che convivono nella nostra mente, rendendo la nostra identità più ampia: alternandosi, scontrandosi, rigenerandosi a vicenda e influenzando il modo in cui vediamo, comprendiamo e diamo forma al nostro mondo. Possiamo ignorarle, rifuggirne la complessità, provare a ridurle a elementi monodimensionali apparentemente più facili da gestire e da inserire nei contenitori “semplici” di cui il mondo ci circonda, oppure possiamo riconoscerle e farcele amiche, e così facendo scoprire l’universo di possibilità che ci appartiene già… perché fa già parte della nostra vita.

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