Sul volto di Gaia Dominici splende il sole della Liguria, ma i suoi occhi cercano l’Africa. È da lì che è appena arrivata ed è lì che presto tornerà, con sua figlia Naresiai al seguito, un fagotto di due anni e mezzo il cui nome significa «persona piena di ricchezza». Ad attenderle troveranno Ntoyiai, il guerriero maasai con cui Gaia ha costruito una famiglia, scegliendo di vivere in un boma – un grande recinto tradizionale – nel cuore della savana, ai piedi del Kilimangiaro. Senza acqua calda, senza corrente elettrica, senza tecnologia. In compenso, con le giraffe in giardino.
«A Genova siamo venute a trovare i nonni materni, un mese o poco più di vita occidentale per sperimentare la diversità, al contrario. Perché diversità e inclusione non dovrebbero mai essere a senso unico» – avverte Gaia. E la sua storia ne è la dimostrazione.
Adottata da una coppia di italiani, lascia a soli 2 mesi e mezzo la sua terra d’origine, la Colombia. Il nostro Paese, però, non è pronto ad accogliere una storia come la sua. «A scuola mi chiedevano di fare l’albero genealogico e dai miei compagni ho subito episodi di razzismo. Non mi sono mai sentita a casa» ricorda. Da lì, la decisione di partire, utilizzando il viaggio come strumento di guarigione e di riconnessione.
Prima destinazione: l’Australia. Poi, la Cornovaglia. È qui che Gaia si iscrive a un corso di laurea in press & editorial photography alla Falmouth University con l’obiettivo di diventare una fotoreporter. Al secondo anno di università sviluppa un reportage in Brasile, dedicato alle baby prostitute nelle favelas. L’anno successivo, sceglie il Kenya per un nuovo progetto fotografico. È specializzata in ritrattistica e quando le si presenta l’occasione di fotografare le donne di un villaggio maasai al confine con la Tanzania accetta immediatamente.
«Il primo incontro è avvenuto con gli anziani della tribù, ho presentato loro il mio progetto e sono rimasti colpiti. Era a prima volta che un’occidentale andava lì con il desiderio di imparare, senza l’ambizione di voler insegnare niente». Così, le si sono aperte le porte del villaggio. Il quarto giorno, durante la visita in una capanna, ha conosciuto quello che sarebbe diventato l’amore della sua via: Ntoyiai, un ragazzone dagli occhi profondi con cui ha iniziato a comunicare a gesti. «Ntoyiai è analfabeta, non sa né leggere né scrivere. Ma a nostro modo ci siamo capiti. E ho scoperto, così, che la lingua è un ponte, ma non è una barriera» confida Gaia. Quell’immediata affinità si è presto trasformata in qualcosa di più tanto che Gaia ha iniziato a studiare lo Swahili e il Maah, la lingua maasai, arrivando a prendere la decisione più dirompente di tutte: trasferirsi nella savana, nel boma di Ntoyiai, con la sua famiglia.
«Non è stato solo l’amore a guidarmi, non sarebbe bastato. La verità è che in Kenya mi sono sentita a casa. Tutti i conflitti che avevo vissuto fino a quel momento, si sono estinti. Ero tornata alla terra madre. Non avevo bisogno di altre radici» afferma. Quella vita, a tratti faticosa («per lavarci, riscaldiamo l’acqua in un catino sulla brace, mentre per difenderci dalle iene abbiamo costruito un recinto di rami spinosi di acacia»), è però generosa in termini di valori e umanità. Un antico detto maasai recita: «Se un uomo sta da solo per troppo tempo, impazzirà» ed è per questo che nella vita del boma, la comunità viene prima di tutto.
«Per una donna cresciuta in occidente, come me, spesso è difficile, ma mi sono accorta che lasciando cadere lo scudo dell’individualismo, si raccolgono doni straordinari». Anche per questo, Gaia e Ntoyiai hanno scelto di crescere la loro bambina Naresiai, all’ombra dei tramonti africani. «Noi occidentali abbiamo la presunzione di pensare che la nostra sia l’unica parte giusta del mondo in cui far vivere un bambino, ma non è così. Se solo ci aprissimo, realmente, alla diversità, scopriremmo un universo di opportunità, in cui dall’incontro con “l’altro” potrebbero generarsi nuove ricchezze».
Un’esperienza di vita vera che Gaia ha raccontato nel libro «La nostra vita nella savana» (DeAgostini editore) con l’auspicio di poter contribuire a un cambiamento culturale. «Parliamo sempre di più di D&I, anche nelle aziende, ma spesso è solo marketing. L’integrazione stessa, in Italia, è lungi dall’essere reale. Ancora una volta, non voglio insegnare nulla, ma testimoniare che tutto è possibile e che la fusione con ciò che è apparentemente distante, può generare qualcosa di meraviglioso». Un invito, quindi, ad andare oltre le apparenze per vedere, finalmente, l’essenziale.
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