Giornata dei rifugiati, la storia di Vittoria in fuga dall’Ucraina

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Questa è la storia di Vittoria, una donna ucraina di 47 anni, che ha dovuto abbandonare la sua città, a causa dell’invasione russa avvenuta lo scorso 24 febbraio, oggi rifugiata in Italia. A lei e a tutti coloro che si trovano a vivere tale condizione Alley Oop dedica la celebrazione della Giornata mondiale del Rifugiato, istituita dall’ONU il 20 giugno. Ricordiamo che l’articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951 definisce rifugiato colui “che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.

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Vittoria con i suoi genitori in fuga dall'Ucraina

Vittoria con i suoi genitori in fuga dall’Ucraina

«La mia casa è l’Ucraina. Provengo dalla piccola città sul fiume Dnepr dal nome Nova Kakhovka, nella regione di Kherson. Sono portatrice di una disabilità, che da 22 anni mi costringe su una sedia a rotelle. a causa di un incidente d’auto. Ma questo non mi ha impedito di raggiungere grandi traguardi nella mia vita. Sono stata tre volte campionessa d’Ucraina di bocce nella classe BC3. Mi sono laureata in Giurisprudenza e Psicologia. Lavoro come specialista di digital marketing e client manager per l’avvocato David Poberezhsky. O, meglio, lavoravo. Fino al 24 febbraio la mia vita era tranquilla, libera e felice. Vivevo con i miei genitori e un cagnolino.

Quella mattina, alle 5, sono iniziati i bombardamenti. Siamo stati svegliati da suoni sconosciuti sino ad allora, inconfondibili.
Rimarranno impressi per sempre nella mia memoria. Il panico e il terrore mi hanno invaso. La prima cosa che ho fatto è stata chiamare mio fratello e urlargli nelle orecchie che era scoppiata la guerra! Sotto shock, mia madre mi ha aiutato a mettermi sulla sedia a rotelle e ho iniziato convulsamente a guardare il feed di Facebook. Cercavo la conferma di quanto stava accadendo. Ma ormai era ovvio che l’Ucraina era sotto attacco.

Solo cinque ore dopo, le forze militari russe erano in città. Colonne di automezzi si estendevano per decine di chilometri, tutti contraddistinti da un’incomprensibile “Z”.
Dapprima, li ho visti attraverso le videocamere online che in quel momento ancora funzionavano in città. Successivamente, un amico mi ha mandato un video che mostrava una squadra di elicotteri russi atterrare all’eliporto. Si sono diretti alla centrale idroelettrica di Nova Kakhovka, una struttura strategica, attraverso la quale l’acqua veniva fornita alla Crimea prima dell’annessione, e l’hanno fatta saltare. Tutto è successo molto rapidamente. In preda al panico, ho letto post, commenti, ho guardato trasmissioni su YouTube. Ero in uno stato di confusione, impotenza e incertezza. Volevo solo scoprire al più presto cosa stesse succedendo. Eppure, non era difficile: le colonne militari provenivano dalla Crimea annessa, dunque il territorio della nostra Crimea ucraina veniva utilizzato come base militare dell’esercito russo contro di noi.

Poi sono arrivate le notizie più strazianti. Il primo giorno su Telegram è apparsa la foto di un anziano riverso per strada, accanto alla sua bicicletta, colpito alle spalle. Sarebbe potuto essere mio padre, che ogni giorno andava in campagna in sella alla sua bicicletta. Da quel momento, ho proibito ai miei genitori di uscire.

Dopo quattro giorni di combattimenti nei dintorni dei villaggi di Kozatsze e Vesele vicino a Nova Kakhovka, dietro la centrale idroelettrica, le truppe russe hanno iniziato ad avanzare verso Kherson. La terra tremava sotto continue esplosioni, raffiche di razzi, grandine di granate. Non avevo un posto dove nascondermi, mi chiudevo in bagno nell’illusione che quello fosse il luogo più sicuro.

Nei successivi 53 giorni abbiamo vissuto in una tensione costante, vedendo scorrere davanti alla nostra casa, giorno e notte, i veicoli militari russi contrassegnati da quella tetra lettera “Z”. Si sentivano arrivare a 300-400 metri di distanza e in pochi giorni ho imparato a distinguere quale mezzo si stava avvicinando. A volte era insopportabile rimanere in casa, le finestre serrate, le tapparelle abbassate, l’aria immobile nelle e stanze non ventilate, le luci spente. Solo le lampade da tavolo illuminavano la nostra paura. E rinunciavamo anche a quelle appena avvertivamo l’avvicinarsi di una colonna militare.

La città si è richiusa su se stessa. Le chat room locali avvertivano quando per qualche ora sarebbe stato aperto un negozio, dove si potevano acquistare latte, pane, verdure o prelevare denaro. A poco a poco, il cibo è scomparso dagli scaffali, a volte è stato possibile acquistare solo un numero limitato di prodotti, ma i residenti si sono supportati a vicenda e hanno condiviso il cibo. Anche con gli animali, per i quali non c’era mangime. Pian piano, abbiamo iniziato a dimenticare il sapore del latte e delle uova, del burro e dei pomodori.

Vittoria con la Croce Rossa italiana

Vittoria con la Croce Rossa italiana

L’Internet del provider locale è stato il primo a spegnersi, seguito dall’Internet mobile di Vodafone, poi i canali ucraini sono stati disattivati, in TV si vedevano solo i canali russi ed è iniziata la propaganda. A quel punto, la popolazione ha iniziato ad abbandonare la città. Le persone partivano in massa, lasciavano le loro case, si formavano colonne di auto private. Nonostante la continua interruzione di Internet, anch’io mi sono messa alla ricerca di un modo per andarcene, fino a quando ho intercettato per caso un annuncio: l’autista di un furgone portava via le persone e c’erano ancora posti liberi. Abbiamo concordato l’orario di partenza per le 8:00 del 17 aprile, la domenica delle Palme.

Durante il viaggio, l’autista ci ha ordinato di rimuovere tutte le applicazioni ucraine, tutti i social network e simili, in modo da non avere foto e messaggi sulla guerra che potessero provocare l’aggressione dei soldati russi. Stavamo scappando dalla zona occupata a nostro rischio e pericolo, non avevamo alcuna garanzia di sopravvivere. Non esistevano i corridoi verdi, ma i volontari che incontravamo nei villaggi ci davano indicazioni sulle strade più sicure.

I posti di blocco russi sono iniziati appena all’uscita dalla città. Sembravano essere ovunque, pieni di militari con le mitragliatrici, circondati da veicoli blindati.
Colonne di macchine si allungavano per migliaia di chilometri, le strade erano costellate di veicoli ucraini e russi bruciati, auto civili crivellate e abbandonate sul ciglio della strada, buchi di missili nell’asfalto, case distrutte dalle bombe ulani e vetri rotti.

Ogni volta che ci avvicinavamo a un posto di blocco, i nostri occhi si abbassavano, il cuore si fermava, il respiro rallentava. In tale stato di tensione, abbiamo superato ben 15 checkpoint russi. Prima dell’ultimo, vicino a Snihurivka, nella zona di Nikolaev, l’autista ha avvertito: «È l’ultimo posto di blocco». Abbiamo trattenuto il fiato.
Una volta superato, ha iniziato ad accelerare visibilmente. Dopo 2 km, ci ha spiegato che stavamo correndo lungo la prima linea, la battaglia poteva iniziare da un momento all’altro o il proiettile di un cecchino poteva raggiungere qualcuno di noi. Ci siamo fermati solo quando abbiamo raggiunto il primo checkpoint ucraino. E ci siamo guardati indietro a cercare di capire perché i russi ci avessero invaso, ucciso, deriso…

Il viaggio è proseguito tranquillo, abbiamo attraversato Mykolayiv e abbiamo raggiunto Odessa, che ci ha accolto in un’atmosfera surreale. Quella notte, il nostro sonno irrequieto è stato squassato dalla sirena, che annunciava i bombardamenti. Era la prima volta che la sentivo. Nei territori occupati, le autorità russe l’avevano proibita per impedire che la popolazione civile fosse avvertita del pericolo imminente…

Ho capito che neanche quella parte dell’Ucraina era al sicuro. Dovevo trovare un modo per lasciare il paese. Cercavo un minibus dotato di ascensore per attraversare il confine con la Polonia in sedia a rotelle. Ma confrontandomi con i volontari Myroslav Stepanovych di Leopoli e poi con Tatiana Fomina, che si prende cura delle persone con disabilità in Ucraina, ho scoperto che la Croce Rossa italiana sarebbe arrivata nel giro di pochi giorni a Leopoli e avrebbe portato in Italia il terzo gruppo di rifugiati con disabilità e le loro famiglie.

Vittoria con i volontari della Croce rossa italiana

Vittoria con i volontari della Croce rossa italiana

Grazie all’aiuto dell’attivista con disabilità Oleg Popov e a un altro mio amico, Denis, che mi hanno assistito in tutto e per tutto a Odessa, siamo riusciti a raggiungere Leopoli e il Centro di Riabilitazione Dzherelo. Dopo tre giorni, in cui la sirena suonava in continuazione, è arrivato l’imponente convoglio di auto e ambulanze della Croce Rossa italiana carico di volontari, medici, traduttori. Il giorno successivo, molti rifugiati provenienti da tutta l’Ucraina si sono radunati all’Arena di Leopoli e poche ore dopo siamo partiti.

Tutto era ben organizzato, ma per me anche questa parte del viaggio è stato un calvario. La strada era lunga, non avrei potuto stare su una sedia a rotelle. Sono dovuta rimanere sdraiata in ambulanza per 33 ore di fila, tutti i muscoli si sono indolenziti, i miei genitori erano seduti uno accanto all’altro, era quasi impossibile cambiare posizione. Ci siamo fatti forza e, alla fine, siamo giunti alla base della Croce Rossa a Marina di Massa la sera successiva.

Ora la mia anima soffre per l’Ucraina, per la mia casa, per la città di Nova Kakhovka nella regione di Kherson. E per i nostri ragazzi delle Forze armate ucraine (AFU), che stanno combattendo per la liberazione del nostro Paese».

Questa testimonianza è stata raccolta assieme alla videomaker di origine bielorussa Tatsiana Khamliuk, come le interviste ai dissidenti bielorussi e ceceni.

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