Sul tema della maternità abbiamo chiaro il bisogno, ma adesso ci sono anche le risorse e l’occasione per portare il nostro Paese in una nuova epoca, per ridefinire che cosa significhi essere madri oggi in Italia.
Dico madre e non genitore, dico madre e non padre per un motivo: laddove è ormai anacronistico pensare che i figli siano un “carico” solo materno – ma incredibilmente si discute ancora su se e quanto congedo dare ai padri – nel disegnare il futuro non possiamo prescindere dallo status quo. Neutralizzare lo status quo nel tentativo di scavalcarlo è il rischio più grande che si corre quando si progetta un cambiamento, quando si intende risolvere un tema sociale.
Per arrivare quindi a non dover più parlare “solo” di madri, è necessario oggi puntare uno sguardo limpido e coraggioso sull’esperienza della maternità nel nostro Paese. Che quella narrazione sia ancora tutta sullo sfondo è facile dedurlo dal fatto che le misure di cui si parla in questi giorni siano indirizzate a “ridurre” il problema, come se il considerarla un problema fosse un fatto ovvio e inevitabile. “Aiutiamo” le famiglie, “compensiamo” i figli, “supportiamo” l’assunzione delle donne. Soluzioni che appaiono vitali per ridurre gli effetti negativi di un problema sociale stagnante: quello della maternità nel nostro Paese. Prima della natalità, prima della genitorialità: il problema è la maternità, e la sua difficile conciliazione con tutto il resto, in particolare con la produttività nella sua accezione più riconosciuta e in generale con i tempi del mercato e della società (sì, anche della scuola, dei servizi, della vita).
Le donne che scelgono di diventare madri in Italia sono coraggiose, sono da proteggere e sostenere.
La maternità è una scelta contro corrente, e come tale va premiata.
La maternità è una scelta punto, e come tale deve essere libera.
Ma che cos’altro è la maternità? Quale narrazione corre sullo sfondo, quale parte della storia non viene raccontata? In quale stereotipo ci stiamo dibattendo, puntando uno sguardo troppo stretto su un evento che della vita è (indiscutibilmente) l’unico e vero motore primario?
L’associazione implicita che avviene nella nostra cultura è quella tra maternità e peso, maternità e malattia, maternità e sacrificio. Nell’ottica della produzione, la maternità è l’interruzione di un percorso lineare: una frattura su cui costruire dei ponti per attutirne le conseguenze negative. Nella prospettiva della realizzazione personale, la maternità è una scelta radicale tra qualcosa e qualcos’altro: famiglia contro carriera, donna contro madre, conflitto tra diverse identità in lotta per la stessa porzione di territorio, che sarebbero testa e cuore delle persone. Nell’ottica della società, la maternità è una discontinuità temporale: una pausa, un mettersi temporaneamente di lato perché si diventa portatori di una complessità che complica tutto il resto poiché vi confligge – pensiamo ai fasciatoi sui treni, agli spazi per allattare, agli orari delle scuole, alla durata delle vacanze estive, alle rampe di scale, ai marciapiedi ingombri, ai cortili vietati ai bambini… tutti servizi eccezionali e mai scontati in un mondo costruito a misura di adulti normodotati.
Nella narrazione che assorbono le giovani donne italiane, la maternità è fatica, rischio, imprevisto, difficoltà. E’ un incontro con il proprio corpo che diventa ostaggio dell’ignoto, ed è un’esperienza che dovrà essere risarcita e protetta perché fuori misura. Una maternità che fa paura, e quindi richiede coraggio. Non c’è bonus bebè né voucher familiare che possa raddrizzare la narrazione di cui è permeata la storia della maternità nel nostro Paese. Dobbiamo dircelo: dobbiamo rendere visibile ed evidente lo status quo, il punto di partenza.
Come nella favola del re nudo, occorre vedere le cose prima di poterle rivestire a nuovo. E poi, una volta ammessa la debolezza di questa narrazione, la sua incongruità e incompletezza rispetto a ciò che veramente può essere l’esperienza della maternità, serve l’investimento consapevole e attivo in una nuova narrazione, più ampia e ricca, di che cosa voglia dire avere dei figli, prendersene cura, crescere persone perché siano più forti di noi e ci sopravvivano. Fare dell’avere un figlio anche un luogo di meraviglia e di forza: invitante per le donne, per i padri, ma anche per le persone senza figli. Il sogno collettivo di un futuro, l’espressione generativa della vita, ma non solo. C’è un aspetto individuale su cui possiamo lavorare, una possibilità dell’essere madre che sarà per sempre inaccessibile se non ci autorizziamo al rischio di parlarne, se non attiviamo nuove conversazioni, più coraggiose e ardite, di quel che succede quando si diventa “grandi”.
Ecco per esempio quello che so da 13 anni, da quando è nata mia figlia Marta: una narrazione del mio essere madre che mi sembra non trovare posto in quella che ne dà il mio Paese.
I miei figli mi salvano la vita ogni giorno: sono la mia palestra, il mio rifugio, il senso di ciò che faccio.
Mi ricordano che il mondo esiste anche senza di me e al tempo stesso mi fanno sentire responsabile di tutto ciò che avviene nel mondo: non c’è niente che mi sia indifferente.
Diventando madre ho capito che sono tutti figli miei, e non è delirio di onnipotenza ma senso di responsabilità.
E non fa paura, anzi: è la ragione per cui scrivo, lavoro, sogno, progetto e ogni giorno, quando mi sveglio, ho più energia e più voglia del giorno prima.
Quel senso della vita tanto ricercato e così facilmente perso, una visione del tempo che ci rende immortali, una capacità di responsabilità che ci salva come specie: avere un figlio rende tutto questo una possibilità concreta e quotidiana, arricchendo ogni altro aspetto della nostra vita. Anche se fosse solo una parte della storia, perché non raccontarla?
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