Precarietà, questione di spazi e di potere: itinerario in quattro libri

alleybooks_murgia-williams-dezio-davies

“Me lo ricordo quel blog del 2006, che poi è divenuto questo libro, perché ha rappresentato la prima circostanza in cui ho usato la scrittura come mezzo per reagire a qualcosa contro il quale nessun’altra reazione sembrava possibile”.

Spazi e potere: la precarietà è un confine labile che si muove tra gli spazi che si hanno – risicati, concessi, rivendicati – e quelli che si vorrebbe avere. Sono passati quindici anni dalla prima pubblicazione de “Il mondo deve sapere” (Einaudi) e le pagine di Michela Murgia, scritte “mentre lavoravo come telefonista a progetto in un seminterrato della provincia di Oristano, pagata 230 euro lordi al mese” rappresentano ancora la voce di quella “generazione perduta”, per cui la legge 30 del lavoro sarebbe dovuta essere “una riforma bella e moderna di cui essere contenti” e di questa “generazione Recovery Fund” per cui l’Europa stanzierà il futuro: sono i giovani del Next Generation EU, a cui spetta l’1% dei fondi ma che hanno imparato a non aspettare. In tutto il 2018 si sono iscritti al Registro degli italiani all’estero 242.353 persone, di cui i giovani tra 18 e 34 anni rappresentano il 40,6%. A partire sono 117mila italiani, 30mila laureati, per un costo di 14 miliardi di euro all’anno: un punto percentuale del Pil. In questi numeri, come racconta Murgia, ci sono “ciascuno con i suoi sogni non realizzati, le scelte che con più sicurezze lavorative si sarebbero potute fare, i figli mai generati per la paura di non avere abbastanza per crescerli e la pensione dei genitori come estremo paracadute nell’incertezza”.

Ridere davanti al baratro perché “il mondo deve sapere”: si ride e si piange, mentre si legge. Michela Murgia è un’outsider assolutamente integrata in un meccanismo perfetto, dove nulla è lasciato al caso: “Sorridi, dall’altra parte del telefono si capisce. Se devi fare una domanda fuori testo, fa’ in modo che non cominci mai per non e che la risposta non possa mai essere no. Altrimenti ti seghi da sola”. Nella gerarchia definita di telefoniste allineate e “donnemanager” che concedono finti viaggi premio, “vali se produci. Altrimenti sei deludente, non sei una persona di successo”. L’orrore è nel quotidiano, “nella tazzina di caffè che non hai bevuto perché ha squillato il telefono”.

Mobbing e ricatti morali sono ovattati perché non ci sono altre vie d’uscita: “Sarebbe solo per farci lavorare, noi siamo pagati per questo”. E, sempre per questo, dissimulare è la parola d’ordine: il kirby da vendere per essere “una persona di successo” non è un semplice aspirapolvere, ma un “macchinario americano multifunzione che fa settanta lavori diversi e sostituisce dieci elettrodomestici”. Sfinisci, convinci e vinci: se riesci, “non è solo perché sei il migliore, ma perché gli altri sono peggiori. Così c’è il doppio messaggio: gratificandone uno, azzeri mentalmente tutti gli altri”. I cartelli in ufficio lo chiamano lavoro di squadra, “il modo in cui la gente comune raggiunge risultati non comuni”. “Ho iniziato a lavorare in un call center”, dirà Murgia, “mi occupo di promozione pubblicitaria”. Da allora, il mondo ha saputo. Cosa è cambiato?

Il Sud che racconta l’Italia

A leggere Francesco Dezio in “La gente per bene” (TerraRossa), si direbbe che non è cambiato nulla. La realtà ne è potente testimone e, lasciare che parli il suo linguaggio è un esercizio di ascolto che Murgia intercetta con il suo racconto biografico e Dezio con le contraddizioni dei suoi luoghi. “Scommetto che quando ti sei presentato al tuo capo ha voluto sapere a chi appartieni”: la gente per bene di Dezio è al Sud, nell’hinterland barese, dove la legge del più forte predomina incontrastata. “In Puglia abbiamo oltre il cinquanta per cento dei disoccupati nell’età che va da quindici a ventotto anni, ed è un problema devastante. È un problema devastante, Francesco, e tu lo sai bene. Senza il lavoro il Paese muore e questi cincischiano sulla legge elettorale per la riforma del Senato. Ma che sceneggiata è? Per andare appresso a queste cazzate ci si scorda del lavoro”: sono tempi moderni i nostri, eppure la voce autentica e spietata di Dezio racconta in presa diretta disparità e ingiustizie sociali, la politica lontana, i compromessi di generazioni passate – come quelli di nonno Theo, “fascio-comunista” per necessità – e tutti i lati d’ombra del sistema che strumentalizza un diritto: il lavoro.

Nella penna di Dezio, sarcastica e intransigente, le uniche posizioni che si prendono sono quelle scomode di chi subisce e, con amara lucidità, un dato assume  significato preciso: nel primo trimestre del 2021, dice l’Inail, gli incidenti mortali sul lavoro sono aumentati del 11,4% rispetto allo scorso anno. Per la gente per bene, si deve essere disposti a tutto, ed è la stessa che – nella scuola degli anni Ottanta – orientava gli studenti dei ceti medio-alti verso i licei e i figli del popolo verso le scuole tecniche e professionali, sacrificandone ogni altra vocazione e illudendoli con la chimera di un posto fisso che non sarebbe mai arrivato. Negli altopiani delle Murge tra Puglia e Basilicata, dove si insedierà la monocultura del divano destinata anch’essa al declino, si snoda la storia di Dezio e di un paese che esiste: c’è spazio per politici e imprenditori miopi, malaffare, saghe di emigrazione e storie d’amore soffocate dall’impossibilità di progettare. Ma, nel tratto nervoso, brilla feroce la voglia di riscatto.

Esistere, resistere

“Vivere in un capanno non è né una scusa né una scelta da barbona o un romantico sogno hippy, ma la mia risposta a una domanda impossibile: come restare in equilibrio in un sistema economico sostanzialmente malato”.

“Mal di casa. Perché vivo in un capanno” (Blu Atlantide) è una storia di precarietà e resistenza. Alla lucida analisi della mentalità capitalista, si accompagna una confessione molto intima: il significato, personale e profondo, della libertà. Quando Catrina Davies inizia a scrivere il suo memoir, la pandemia da coronavirus è ancora lontana. Eppure, nel Regno Unito in emergenza, quello dei capanni diventerà un trend: chi ha potuto, si è costruito uno shed per fuggire dalle città o ne ha installato uno in giardino come postazione smart working. Vivere nel capanno, come racconta Davies, significa ricondurre la vita all’essenziale e ripercorrerla nelle sue ferite. A trentuno anni, dopo lavori occasionali, case condivise in minuscole stanze e progetti creativi a cui non riesce a dedicarsi perché schiacciata dalla preoccupazione costante di non riuscire più a permettersi un posto dove vivere, l’artista inglese decide di fare ritorno nella sua regione, la Cornovaglia, con un piano: sistemarsi nel capanno abbandonato che il padre usava come ufficio prima di chiudere la propria attività per fallimento e renderlo casa sua.

Riportare tutto all’essenziale per riportarsi a se stessa: le fatiche di ogni nuova conquista sono ripagate dall’armonia perfetta tra corpo e natura, finalmente percepita come parte di sé e non come un paesaggio dove collocarsi casualmente: “mi piacevano la luce e la solitudine, mi piaceva trascorrere la maggior parte del tempo all’aperto, adattare il mio comportamento alla forza del vento o alla rigidità del freddo (…) Ho scambiato frigoriferi e termosifoni con la libertà, e sebbene il mio stile di vita mi abbia posto delle sfide, sono arrivata alla conclusione che la libertà valga qualsiasi privazione materiale”. Nella narrazione di piccole grandi impresi quotidiane – compresa quella di circumnaviganre su una tavola da surf il promontorio di Land’s End – la storia di Catrina Davies non finisce con un naufragio ma con una maestosa conquista: “L’opposto della schiavitù è la libertà, non l’ozio, e la libertà è ciò che il mio capanno rappresenta. Libertà di lavorare, e lavorare tanto, su cose che per me sono importanti. Libertà di essere pagata male per fare le cose bene. Libertà di rifiutare di fare cose brutte solo perché mi pagano bene. Ma tutto ha un prezzo e il prezzo della libertà è la sicurezza. […] Secondo il mio enorme dizionario, la parola confidence, sicurezza, ha la radice in trust, fiducia.»

Abitare la precarietà

Se per Catrina Davies la libertà abita nel suo capanno, per Lara Williams è nel cibo che risiede. Nel suo romanzo d’esordio “Le divoratrici” (Blackie), Williams attraversa la condizione di precarietà esistenziale, muovendosi tra i temi del patriarcato e dell’oppressione femminile con una metafora potente: quella della fame. Le divoratrici hanno fame, di paura e libertà: “Ero ancora così impaurita, eppure così affamata di tutto. La liberà come astrazione, la paura come il suo contrario: il rischio necessario, in assenza del quale la libertà perde di significato”. La protagonista, Roberta, è sulla soglia dei trent’anni ma la narrazione salta tra presente e passato, fino ai tempi dell’università: un viaggio emotivo che ripercorre gli anni che vive in solitudine, poco incline alle amicizie e preda della nostalgia di casa. Il senso di inadeguatezza è costante, a placarlo è un’azione precisa, ripetuta, quasi ossessiva: cucinare. Sezionando i dettagli di ogni pietanza e svelandone le emozioni in ogni accostamento succulento.

Dieci anni dopo, Roberta lavorerà per un sito web di moda. Ma il rapporto con il cibo rimarrà centrale: “Non era quello che volevo, ma non era nemmeno quello che non volevo. Pensare a cosa volessi dal futuro era come apprendere che i sensi non erano solo cinque ma ne esisteva uno in più: non avevo punti di riferimento per orientarmi. Mi limitavo a correre di qua e di la, cambiando direzione di secondo in secondo”. Per il cambio di passo, decisivo sarà l’incontro con Stevie, artista eccentrica e anticonformista: insieme fonderanno il Supper Club, una società segreta di sole donne che periodicamente s’incontrano per soddisfare i propri appetiti e violare le convenzioni sociali: “Quale violazione più massiccia di un’adunata di donne impegnate ad appagare i propri appetiti e a occupare spazio?”. Davanti a una società che le desidera docili e gradevoli allo sguardo maschile, le divoratrici si riappropriano della libertà di scegliere del proprio corpo e lo guardano ingrandirsi con gioia e soddisfazione: “Volevamo espanderci ed essere sfamate; volevamo sapere che cosa si provava. A sentirsi piene come un uovo, anziché avide e fameliche tutto il tempo”. A quella “sensazione stranissima di considerarsi passeggeri a bordo del proprio corpo”, Williams risponde cavalcandola: il Supper Club è una rivoluzione segreta, traversale alla vita di donne diverse, “intrepide e sbucate improvvisamente dal nulla, ma accomunate dall’”evidenza cristallina che tutto nelle loro vite poteva succedere”.

La precarietà, di vivere e sentire, diventa rivendicazione e manifesto, “una sorta di abbandono all’ansia come forma di cura” di cui il Fight Club femminista di Williams si fa carico, rivelando la realtà: “Niente fa più paura di una donna che mangia e scopa con abbandono”. Perché, afferma Roberta, “il punto non è soltanto il cibo. È il modo in cui affermiamo noi stesse in uno spazio. In diversi spazi. Il punto è rivendicarne di più. (…) esistere in spazi che la società ci proibisce”. La precarietà si muove qui, nella tensione tra muovere e abitare. In mezzo, la vita.

***

Titolo: “Il mondo deve sapere”
Autrice: Michela Murgia
Editore: Einaudi
Prezzo: € 11,40

Titolo: “La gente per bene”
Autore: Francesco Dezio
Editore: TerraRossa
Prezzo: € 15

Titolo: “Mal di casa. Perché vivo in un capanno”
Autrice: Catrina Davies
Editore: Blu Atlantide
Prezzo: € 18

Titolo: “Le divoratrici”
Autrice: Lara Williams
Editore: Blackie
Prezzo: € 18,90

***

La newsletter di Alley Oop

Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.