In Italia si fanno pochi figli. Se ce ne fosse bisogno ancora una volta i numeri ci confermano una realtà che si sta consolidando nel tempo, anche a causa di alcuni fattori sociali ed economici. Il numero medio di figli per donna nel nostro Paese risulta pari a 1,24, il livello più basso dal 2003. Ce lo ha ricordato l’Istat, nel report sugli indicatori demografici 2020.
Per avere un parametro di paragone, basta pensare alla media europea che nel 2019 era di 1,53 figli a donna, in leggero calo , anche in questo caso, rispetto al picco di 1,57 raggiunto nel 2007.
Resta il fatto che l’Italia rimane fra i Paesi meno “fertili” nel contesto Europeo e certamente ben dietro la Francia che ha un livello di 1,86 figli per donne. Nella tabella qui sotto, per altro, il numero assegnato all’Italia non è ancora stato aggiornato con l’1,24 dichiarato dall’Istat in settimana.
Avere figli in Italia, sottolinea l’Istat nel report, rappresenta sempre più una scelta posticipata e, in quanto tale, ridotta rispetto a quanti idealmente se ne desiderano. L’età media al parto ha raggiunto i 32,2 anni (+0,1 sul 2019), un parametro che segna regolari incrementi da molto tempo (30,8 nel 2003 e 31,1 nel 2008). Capita così che la fecondità espressa dalle donne 35-39enni superi quella delle 25-29enni o che le ultraquarantenni stiano progressivamente avvicinandosi ai livelli delle giovani under25.
I motivi alla base del calo di nascite
La situazione italiana è certamente complessa sul fronte femminile, ma anche per quel che riguarda i giovani. Il piano relativo al Recovery Fund si era dato fra gli obiettivi proprio quello di sanare alcuni dei gap che ci separano dalla media europea. Certamente uno dei primi fattori che ha un’influenza diretta sul fare figli è quello della stabilità lavorativa: i giovani faticano a uscire dalla precarietà e la crisi economica attuale di certo non faciliterà un miglioramento delle condizioni. Proprio per questo continua ad alzarsi l’età media delle mamme. A peggiorare le cose, poi, un’occupazione femminile che resta bassa (47,5%) e un divario salariale uomo-donna, che penalizza queste ultime e fa sì che spesso rinuncino al lavoro dopo la prima maternità. Il fatto di trovarsi di fronte alla scelta lavoro o figli può essere un ulteriore deterrente per le donne nel realizzare progetti di famiglia.
Non solo. Il welfare a sostegno delle famiglie è ancora carente in Italia e molto si basa sul supporto dei nonni, che però, con l’età pensionabile in aumento, sono disponibili sempre “più tardi” nel supportare la crescita dei nipoti. Basti pensare poi che in Italia la disponibilità di posti negli asili nido continui a risultare scarsa rispetto ai livelli europei e i nuovi investimenti del governo Draghi non puntano certo agli obiettivi europei ancora.
Un contesto, quindi, che non aiuta la scelta di diventare genitori e non può bastare la garanzia del mutuo per i giovani per sbloccare una situazione che richiede un intervento congiunto di tutte i dicasteri, con l’applicazione di un Family Act ben più ampio di quello disegnato finora.
Più nascite al Nord
Tornando ai numeri diffusi dall’Istat, la riduzione della natalità interessa tutte le aree del Paese, da Nord a Sud, salvo rare e non significative eccezioni. Sul piano regionale le nascite, che su scala nazionale risultano inferiori del 3,8% sul 2019, si riducono dell’11,2% in Molise, del 7,8% in Valle d’Aosta, del 6,9% in Sardegna. Tra le province, a riprova di un quadro generale piuttosto critico, sono soltanto 11 (su 107) quelle in cui si rileva un incremento delle nascite: Verbano-Cusio Ossola, Imperia, Belluno, Gorizia, Trieste, Grosseto, Fermo, Caserta, Brindisi, Vibo Valentia e Sud Sardegna.
La fecondità si mantiene più elevata nel Nord del Paese, con 1,27 figli per donna ma in calo rispetto a 1,31 del 2019 (e a 1,44 del 2008). Nel Mezzogiorno scende da 1,26 a 1,23 (1,34 nel 2008) mentre al Centro passa da 1,19 a 1,17 (1,39 nel 2008). La regione più prolifica è il Trentino-Alto Adige con 1,52 figli per donna, in calo da 1,57 del 2019. Sotto il livello di 1,2 figli per donna si trovano soltanto regioni del Centro-sud.
Una situazione decisamente sfavorevole è nelle aree a maggiore declino demografico, che, al contrario, avrebbero grande necessità di invertire le tendenze in corso. In Umbria, Abruzzo, Molise e Basilicata si è molto più prossimi al livello di rimpiazzo della sola madre (cioè a un figlio per donna) che non, idealmente, a quello della coppia di genitori (due figli). In Sardegna (0,95 figli per donna), per il secondo anno consecutivo non si coglie nemmeno l’obiettivo minimo di rimpiazzare almeno un genitore. In questo panorama, tutt’altro che favorevole, l’unica realtà territoriale che si differenzia dalle altre è la provincia di Bolzano che, con 1,69 figli per donna, detiene il primato della più alta prolificità, seguita ad ampia distanza dalle province di Gorizia (1,42), Palermo e Catania (1,38), Ragusa e Cuneo (1,36) e Trento (1,35). Nel complesso sono 62 (su 107) le province con un livello di fecondità sotto la media nazionale (1,24), segno di una evidente asimmetria a sinistra della distribuzione, con quattro delle cinque province sarde sotto il livello di un figlio per donna e la quinta, Nuoro, che si ferma a 1,01.
L’allarme delle ostetriche
“Commentare i drammatici dati Istat sul calo delle nascite in Italia sembra diventato quasi anacronistico ormai. Quello che ha fotografato, infatti, l’Istituto nazionale di statistica non rientra più nel novero dell’emergenza, ma di un tratto strutturale del nostro Paese. Sono anni, ormai, che il trend negativo dei nuovi nati non si arresta e anzi continua la propria vorticosa avanzata e per il quale il Covid-19 ha avuto un impatto secondario. Di questo fenomeno sono ben consce le ostetriche che quotidianamente vivono in prima persona la diminuzione del numero delle gestanti e di conseguenza delle nascite“. Questo il commento di Silvia Vaccari, neo presidente della Fnopo, la Federazione nazionale degli Ordini della professione di ostetrica, all’agenzia stampa Adnkronos.
“È ovvio che trattandosi di un problema complesso, e le cui cause sono multifattoriali, necessita di soluzioni che coinvolgono più responsabili, quali ad esempio il welfare, l’economia. Di certo, però, il primo soggetto che deve farsi carico di tale criticità è il ministero della Salute – avverte Vaccari – al quale la Federazione nazionale fa un sentito appello affinché vi sia un rinnovato impegno attraverso l’impiego di maggiori risorse che finanzino investimenti sul personale, sui nuovi modelli organizzativi che vedano al centro la donna supportata dall’ostetrica nel rispetto e con l’attenzione dovuta alla sua fisiologia“.
“Il Recovery fund – prosegue Vaccari – è l’occasione imperdibile e privilegiata per realizzare obiettivi che dovevano essere realizzati da anni: adeguate strutture di prossimità pubbliche e ad accesso gratuito che siano un punto di riferimento per le donne, puntando su modelli quali l’ostetrica del territorio, di comunità e di quartiere, rafforzare i consultori familiari potenziandoli in numero sufficiente e dotandoli di personale ostetrico e di supporto adeguatamente formato che garantiscano prevenzione, presa in carico e sicurezza e appropriatezza delle cure. Senza adeguati investimenti – conclude – sulla salute femminile non vi può essere una sana progettualità di maternità e paternità con la conseguenza di avere un Paese sempre più vecchio e povero“.
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