Scuola dell’infanzia, ecco perché calano le iscrizioni

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Studenti delle superiori che protestano, occupano e preoccupano per i risvolti psicologici di una scuola-non scuola con la dad. Ma la pandemia la stanno pagando cara anche i più piccoli e le loro famiglie. Preoccupano i dati in calo quest’anno delle iscrizioni alla scuola dell’infanzia (fascia 3-6 anni, considerata fascia prescolare, non obbligatoria). Secondo l’elaborazione dei dati del Ministero dell’istruzione curata da Tuttoscuola, se nell’anno scolastico 2013-2014 i bambini iscritti erano più di un milione, nell’anno scolastico in corso questo numero è sceso a 875mila, con un calo del 15% rispetto al 2013-2014. Questo si traduce in oltre 1.500 classi in meno e nella chiusura di mille scuole dell’infanzia paritarie e 250 scuole statali (per lo più monosezioni).

La causa principale risiede nel calo demografico già in atto da tempo, quel calo che ha già ridotto la popolazione scolastica nella scuola primaria e che a breve ci farà sorridere nel ripensare all’eterno dibattito sulle classi-pollaio alle superiori. Non sarà la politica a risolvere il problema, ma la drastica riduzione del numero di ragazzi e ragazze. Ma se su 155mila alunni in meno alla scuola dell’infanzia rispetto ad 8 anni fa, 110mila sono dovuti al calo demografico, 45mila iscritti in meno sono dovuti ad altro, a motivi che si erano insinuati già da qualche anno, ma che ora rappresentano un altro regalo sgradito della pandemia.

L’analisi europea Education and training, nel riportare gli obiettivi di Lisbona per i Paesi dell’Unione, indicava nel 2009 un lusinghiero tasso di scolarizzazione dei bambini italiani di età 4-5 anni vicino al cento per cento. Dieci anni dopo era sceso sotto il 95%, obiettivo fissato dall’Unione.

Prima nessuno rinunciava a questo importante servizio, ora un 5% delle famiglie non può o non vuole avvalersene, con conseguenze negative che vedremo presto: una vasta letteratura conferma infatti che i bambini che frequentano la scuola dell’infanzia hanno maggior successo in tutto il percorso formativo successivo, fino alle scuole superiori, e di conseguenza anche nell’inserimento nel mondo del lavoro. E allora perché alcune famiglie rinunciano, danneggiando così pesantemente i figli e condannandoli a una maggiore povertà educativa, rischio che si fa più preoccupante nelle famiglie più fragili?

Molto pesa la paura dei contagi da Covid19, soprattutto fra i più piccoli, ai quali è quasi impossibile imporre le rigide regole del distanziamento. E poi le famiglie sono messe a dura prova dalle continue interruzioni delle lezioni a causa di contagi, quarantene, ma anche solo per un banale raffreddore che rende ormai ogni bambino un appestato da isolare. Le regole delle scuole dell’infanzia si sono fatte inevitabilmente più severe e rappresentano un bel carico per le famiglie.

Ma a sentire gli esperti c’è dell’altro. Le famiglie sono sempre più preoccupate e più povere. In molte zone l’offerta statale è insufficiente e nel privato ci sono rette da pagare. Poi c’è il contributo per la refezione. E che succederà quando finirà il blocco dei licenziamenti? Le famiglie si portano avanti e rinunciano a questa spesa. Anche perché è spesso venuto meno uno dei motivi per cui le famiglie si avvalgono di questo servizio: dove metto il bambino mentre sono al lavoro? Partite Iva, lavoratori precari, collaboratori, molti sono già a casa, falcidiati dalla crisi. Chi ancora ha un impiego spesso è in smart working e quindi si barcamena fra riunioni su Zoom, mail e telefono, col piccolo cullato sul quarto braccio stile dea Kali. Frequente vedere bambini che passeggiano alle spalle dei papà durante le riunioni virtuali, ma a caricarsi maggiormente del peso della presenza dei figli piccoli in casa sono ancora troppo spesso le donne. Per le quali, se disoccupate, trovare un nuovo impiego si fa più complicato se di mezzo ci sono anche dei figli da gestire.

Qualche dato: a dicembre, secondo l’Istat, gli occupati sono diminuiti di 101mila unità e fra questi 99mila sono donne, ricacciate nel limbo della disoccupazione o – peggio – dell’inattività. E sono tanti gli studi che dimostrano che nelle regioni dove i servizi per l’infanzia sono maggiori (oltre alla scuola dell’infanzia vanno dunque considerati anche gli asili nido) la partecipazione femminile al mercato del lavoro è più alta. Se infatti l’Italia vede una partecipazione femminile al mercato del lavoro al 56,2 per cento, tra i 15 e i 64 anni, contro una media europea del 67,5 per cento, un recente studio di Istat, Università Cà Foscari di Venezia e Dipartimento per le politiche della famiglia, dimostra che in Regioni virtuose a livello di offerta dei servizi per l’infanzia come Emilia Romagna, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, l’indice sale al 70%, per scendere invece a poco più del 30 in regioni povere di nidi e scuole dell’infanzia come Puglia, Campania, Calabria e Sicilia.

Per questo – è la conclusione di Tuttoscuola – lo stanziamento di adeguate risorse per la formazione prescolastica, da 0 a 6 anni, deve essere considerato una priorità nel Piano Next Generation EU. Per i bambini certo, ma anche per le madri.