La complessa relazione tra donne e lavoro

Foto di Andrea Piacquadio da Pexels

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E’ appena stato pubblicato sul sito della Ragioneria generale dello Stato il Bilancio di genere relativo al Rendiconto generale 2019. Il documento si apre con un commento dei divari di genere nel nostro Paese, rispetto al contesto europeo, in base ai dati del Gender Equality Index 2019 calcolato dall’EIGE.

L’indice misura l’andamento dell’uguaglianza tra donne e uomini nel tempo, assegnando ogni anno agli Stati membri un punteggio che va da 1 a 100 in ognuno dei seguenti ambiti o “domini chiave”: lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute. I punteggi misurano le differenze che permangono in ciascuno degli ambiti e nell’aggregato: un punteggio di 100 significherebbe che un paese ha raggiunto la piena parità di genere, ma nessun Paese lo ha ancora raggiunto; il punteggio più alto è quello della Svezia (84), il più basso è quello della Grecia (51), e l’Italia si posiziona al quattordicesimo posto con un punteggio complessivo di 63 su 100.

Analizzando in dettaglio le diverse componenti dell’indice emerge, in particolare, che proprio nel dominio del lavoro il punteggio dell’Italia è il più basso tra tutti i Paesi membri: 63, contro l’83 della Svezia e il 72 della media europea. Più specificamente, nel sottodominio relativo alla partecipazione femminile al mercato del lavoro, il tasso di occupazione equivalente a tempo pieno, che tiene conto della maggiore incidenza dell’occupazione a tempo parziale tra le donne, e della durata della vita lavorativa, colloca l’Italia all’ultimo posto della graduatoria con un punteggio pari a 31, contro il 59 della Svezia e il 41 della media europea.

Perché la partecipazione femminile al mercato del lavoro è così bassa nel nostro Paese?

La questione non è nuova; fin dal secolo scorso il Consiglio straordinario sull’occupazione di Lussemburgo (‘97) aveva stabilito negli orientamenti per il 1998 che “gli Stati membri dovrebbero provvedere affinché la loro volontà di promuovere le pari opportunità si concreti in un aumento dell’occupazione femminile” e che “dovrebbero adoperarsi per ridurre il divario tra il tasso di disoccupazione femminile e quello maschile attraverso misure di sostegno attivo dell’occupazione delle donne”, ma i dati mostrano a tutt’oggi una perdurante situazione di stallo, che risulta tanto più preoccupante adesso che la pandemia Covid-19 ha messo in luce la complessità del problema e ha moltiplicato le difficoltà di fare progressi per il nostro Paese.

L’EIGE pubblicherà il prossimo 29 ottobre il nuovo indice sull’uguaglianza di genere 2020 con focus proprio sulle conseguenze della pandemia Covid-19 per l’uguaglianza di genere, ma in attesa di questi nuovi dati può essere utile riconsiderare dal punto di vista economico i termini della complessa questione che lega il rapporto tra le donne e il lavoro (pagato e non pagato).

Nel bilancio di genere citato in apertura si sottolinea opportunamente che le considerazioni sull’uguaglianza tra donne e uomini “assumono particolare rilevanza quando è possibile identificare chiari (o stereotipati) ruoli di genere rispetto a specifici ambiti, come ad esempio nel caso della tradizionale asimmetria nella distribuzione del lavoro non retribuito di cura, che è svolto prevalentemente dalle donne”, perché le differenze nei tassi di occupazione maschile e femminile riflettono appunto le scelte degli individui sulla divisione del lavoro tra produzione familiare e produzione per il mercato.

Il riferimento economico di base pone attualmente a confronto due modelli: da un lato vi è la rappresentazione tradizionale del valore economico della produzione domestica e delle condizioni che determinano la divisione del lavoro di genere nel contesto dell’economia della famiglia, e dall’altro vi è l’approccio più recente, sviluppato nell’ambito dell’economia dell’identità, che riconosce la rilevanza del condizionamento degli stereotipi anche in contesti di scelta razionale in cui le decisioni individuali siano motivate da preferenze genuine.

Nel primo modello la famiglia è analizzata come una struttura produttiva, cioè come un’azienda in cui si allocano le risorse tempo ed energia, che ciascun individuo possiede in egual misura, al fine di produrre beni e servizi quali la preparazione dei pasti, il lavaggio e la stiratura di indumenti e biancheria, la cura dei figli e l’assistenza agli anziani, e così via.

Nell’ambito di questo quadro di riferimento generale, la sfida interpretativa che la disaggregazione dei dati per sesso pone agli economisti riguarda sia l’offerta di lavoro, cioè le decisioni che le persone appartenenti alla popolazione in età attiva prendono relativamente alla loro partecipazione al mercato del lavoro, date le condizioni del sistema economico considerato, sia la domanda di lavoro, cioè le decisioni assunte dai datori di lavoro relativamente alla gestione delle posizioni lavorative, date le caratteristiche della forza lavoro nel sistema economico considerato.

Dal lato dell’offerta di lavoro, si tratta dunque di spiegare le determinanti della rilevante e ininterrotta crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro, che si è verificata nell’ultimo ventennio in tutti i paesi industrializzati, ma che il Italia risulta più lenta e meno marcata. Dal lato della domanda di lavoro, si tratta invece di spiegare sia il permanere di una differenza evidente tra i tipi di lavoro svolti da uomini e donne, e tra i redditi che essi ne ricavano (segregazione occupazionale), sia il permanere di differenziali salariali a parità di ogni altra condizione (discriminazione di genere).

Nel secondo modello, l’economia dell’identità espande la tradizionale analisi economica su questi temi, includendo nella funzione di utilità anche i costi e i benefici che derivano sia dalla decisione sulla ripartizione del tempo tra produzione familiare e lavoro per il mercato, sia dalla scelta di professioni e attività ritenuti dalle norme sociali non consone al proprio genere. La prima conseguenza di tale inclusione è che, a parità di ogni altra condizione, gli uomini massimizzeranno la propria utilità scegliendo percorsi formativi e professioni “da uomo”, e le donne scegliendo studi e mansioni “da donna”. Similmente, i datori di lavoro preferiranno assumere uomini per lavori “maschili” e donne per lavori “femminili”.

Anche in questo caso, ciò che si osserva sul mercato del lavoro è l’esito delle scelte compiute dagli agenti economici, sia individui (l’offerta di lavoro) sia imprese (la domanda di lavoro). Le scelte degli individui, cioè le decisioni che le persone prendono nel corso della loro vita e che si riflettono nella differenza dei loro redditi, dipendono da un lato da preferenze genuine e/o stereotipate, e dall’altro dalla diversa struttura degli incentivi (cioè dei costi e benefici) che delimita il loro campo di scelta.

In tale contesto, è compito della politica economica governare la struttura degli incentivi (cioè la consistenza dei costi e dei benefici associati alle diverse alternative) al fine di ottimizzare la divisione del lavoro tra produzione domestica e produzione per il mercato. L’ineguale ripartizione del lavoro tra i sessi attualmente osservata ostacola infatti l’allocazione ottimale di una risorsa scarsa e preziosa in ogni contesto sociale rilevante: il talento (o abilità innata, o intelligenza) di cui ciascun agente economico è naturalmente e specificamente dotato. Ciò accade ogni volta che l’allocazione ottimale del tempo e dell’energia considerate nel primo modello entrano in conflitto con l’allocazione ottimale dell’intelligenza, rendendo di conseguenza socialmente inefficiente l’allocazione complessiva delle risorse, e generando in tal modo un prodotto effettivo minore di quello potenziale.

Dal punto di vista normativo, pertanto, sono auspicabili sia le politiche a favore della produzione familiare (cioè di condivisione e conciliazione), sia le politiche che incentivano la partecipazione femminile al mercato del lavoro (cioè di occupabilità e pari opportunità). I provvedimenti di entrambi i tipi devono essere proposti in modo complementare, e non conflittuale, al fine di allocare in modo ottimale le risorse umane di cui la società dispone. In particolare, come auspica l’economia di genere, tali provvedimenti devono perseguire il riequilibrio della struttura degli incentivi al fine di allocare in modo ottimale il talento (o intelligenza, o abilità innata) di cui entrambi i generi sono dotati in egual misura.

Prof, non è proprio chiarissimo … può fare un esempio?

Un esempio di cosa?

Della domanda che ci farà all’esame …

Perché la partecipazione femminile al mercato del lavoro è così bassa in Italia?

Per gli stereotipi di genere va bene?

Va bene, ma non è sufficiente

Per le preferenze genuine e/o stereotipate va bene?

Va bene, ma non è sufficiente. Bisogna aggiungere anche e dalla diversa struttura degli incentivi (cioè dei costi e benefici) che delimita il loro campo di scelta. Heckman (2014) identifica il filo conduttore di tutto il lavoro di Becker e dell’intera Scuola di Chicago proprio nel ruolo svolto dagli incentivi nel determinare le scelte degli agenti economici. La struttura degli incentivi è un elemento fondamentale per spiegare il comportamento di donne e uomini nelle economie moderne, cioè nei sistemi produttivi in cui gli agenti sono eterogenei e il contesto decisionale è caratterizzato da informazione incompleta ed asimmetrica.

  • ezio |

    Se i dati statistici citati fossero corretti con il dato associato della scelta del lavoro famigliare, come scelta femminile, non ci sarebbe disparità di genere, ma solamente differenza di libera scelta lavorativa professionale e di stile di vita.
    Sono convinto che per la maggioranza delle donne non giovanissime, la scelta famigliare non sia subita, ma un desiderio primario verso altri lavori e professioni meno libere e meno gratificanti.
    Resta il problema della remunerazione, ma la libera scelta di dedicarsi esclusivamente alla propria famiglia senza produzione diretta di reddito, non può gravare sulla socialità, non essendo un servizio alla collettività, ma solamente e prevalentemente a se stessi.
    Naturalmente servono sostegni ed incentivi alla natalità e crescita di figli italiani in darmmatico calo e sbilancio verso i decessi, ma il sostegno al lavoro famigliare dovrebbe essere concentrato e sostanziale per i figli fino ad indipendenza econonica.
    Infine, riconoscere al patner che lavora, un assegno contributivo per la creazione di un trattamento pensionistico della moglie/compagna, potrebbe essere una forma di compensazione e giustizia sociale.

  • Michele |

    “Perché la partecipazione femminile al mercato del lavoro è così bassa nel nostro Paese?”

    Prof, per individuare un altro fattore utile a determinare le cause questa misteriosa e indecifrabile situazione, dalle cause così sfuggenti e complesse, andrebbe bene provare a fare una sorta di esperimento mentale? Una cosa tipo questa:

    1) Hai 20 anni, sei residente in Italia, sei un uomo. Cerchi lavoro fino a quando non trovi una donna che ti mantenga e che in caso di separazione sia obbligata dal tribunale a versare un assegno di mantenimento.
    2) Hai 20 anni, sei residente in Italia, sei una donna. Cerchi lavoro fino a quando non trovi un uomo che ti mantenga e che in caso di separazione sia obbligato dal tribunale a versare un assegno di mantenimento.
    Domande:
    a) A 40 anni che probabilità hai di essere ancora un/a motivato/a partecipante al mercato del lavoro?
    b) Nel caso tu decida di non partecipare nemmeno al mercato del lavoro, quante probabilità hai di finire in mezzo a una strada nel caso 1? E nel caso 2?

    Va bene come metodo, prof?

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