Nelle scorse settimane, la notizia nei titoli dei giornali è stata che delle donne avessero vinto il Nobel. In molte si sono sentite trattate come dei panda. La verità è che sì, se una donna vince il Nobel fa notizia, ed è giusto che sia così: che stia nei titoli dei giornali, perché è una novità. Una delle tante di questo secolo, che per la prima volta vede l’altra metà del cielo affacciarsi in posizioni decisionali di Paesi importanti e istituzioni transnazionali. Non in Italia. Potremmo ripeterlo fino a perdere la voce: in Italia, a iniziare con le posizioni di governo, le donne sono sempre in seconda o terza fila.
Dodici Presidenti della Repubblica e ventinove del Consiglio, mai una donna.
Anche le due sindache arrivate dai Cinque Stelle hanno quindi fatto notizia e, di nuovo, era davvero una notizia. Non fanno più notizia, invece, le donne prefetto: la prima è stata Anna Maria D’Ascenzo a Grosseto nel 2003, 17 anni fa, oggi sono 40, e gli uomini 65. Tutto ciò che è raro fa notizia (la famosa storia dell’uomo che morde il cane…), soprattutto quando resta raro inspiegabilmente a lungo.
Come un cane che si morde la coda, il “problema delle donne” non si sa bene da che parte cominciare a scioglierlo. Perché le donne sono al tempo stesso il problema e la soluzione: mancano i servizi per l’infanzia, le madri non lavorano e si occupano dei bambini, risolvendo il problema che “loro stesse” (ma non da sole!) hanno generato. Le donne quindi “generano meno problemi” per raggiungere l’autonomia economica – da qui un tasso di natalità tra i più bassi del mondo – ma questo non sembra risolvere del tutto la cosa, visto che continuano ad avere contratti più fragili, redditi più bassi, pensioni a rischio fame e scarsa presenza dove si decide. In parte perché non possono garantire che prima o poi non si distingueranno dai maschi con una traiettoria di vita che contempla la genitorialità o la cura di altri (per esempio i propri genitori), quindi il rischio assenza o distrazione non è mai del tutto disinnescato. Ma non è tutto qui: e mai come oggi è importante guardare oltre.
Un sondaggio del Centro di Ricerca Pew sulla popolazione americana nel 2018 mette in evidenza che “Gli Americani pensano che le donne siano meglio degli uomini nel creare ambienti di lavoro sicuri e rispettosi”. Il tema è caldissimo: lo stato di ansia e incertezza che ha invaso le nostre case e i nostri uffici richiede oggi una leadership molto più accudente (una “caring leadership”, nel bell’aggettivo inglese) per consentire alle persone di tornare a sentirsi sicure e quindi, di conseguenza, produttive.
Il 52% del campione intervistato non vede differenza di genere in questo, ma l’altra metà si divide tra un 5% che considera più adatti gli uomini e un 43% che invece vede questa capacità prevalere nelle donne. A dirlo è anche il 37% degli uomini. Perché? Perché non solo l’aspetto fisico, il tono di voce, il modo di muoversi e altre cose evidenti sono diverse tra uomini e donne. E lo sono: parità infatti non vuol dire essere uguali, ma avere accesso a pari condizioni di trattamento e opportunità.
Di diverso, uomini e donne hanno, nella nostra sontuosa varietà di specie, anche lo stile manageriale e il modello di leadership a cui fanno riferimento per far emergere il proprio talento. Secondo il 35% del campione Pew, le donne sono più capaci nel valorizzare le persone che provengono da background differenti, il 33% ritiene che tengano più in considerazione l’impatto sociale delle decisioni di business e la stessa percentuale di persone pensa che le donne siano più brave a far crescere i collaboratori giovani.
Sono opinioni basate sull’osservazione del proprio ambiente di lavoro. Da cosa derivano? Da quello stesso grado di diversità che rende difficile nel nostro Paese avere donne in posizioni decisionali: se avere potere è un compito difficile e raggiungerlo è una scalata, farlo esprimendosi in modo diverso dalla maggioranza è quasi impossibile.
Eppure, al potere “serve” la diversità. La qualità delle decisioni e lo stile di potere che ci hanno portato fin qui, difficilmente saranno utili a cambiare la traiettoria della nostra società.
Dovrebbero mettersi in profonda discussione, ma come farlo mentre l’emergenza richiede velocità? E perché farlo dopo, a emergenza finita? Ecco quindi un’altra, più grande opportunità che si apre nel ragionare su come far partecipare di più le donne all’economia e alla società: non solo a valle, nella presenza nella forza lavoro e nella fruizione di servizi, ma anche e soprattutto laddove deve cambiare radicalmente la qualità delle decisioni e dei processi che le informano per consentirci di disegnare un Paese davvero, profondamente, diverso.
Anche l’Italia, come il mondo del lavoro, ha bisogno di caring leadership. Per far sentire sicuri i cittadini non solo nel presente, ma nella visione di un futuro che non li considera solo “forza produttiva”, ma esseri umani complessi, diversi, con un potenziale enorme su cui investire per una crescita che non sia accumulo ma sviluppo. Per avere questa possibilità, occorre spalancare le porte del potere a tutto ciò che è nuovo e diverso: anche se all’inizio può comportare incertezza e rallentamento per modificare schemi già rodati.
La bontà di una decisione, infatti, non è data solo dal tempo che si impiega a prenderla moltiplicato per il risultato che dà, ma anche – e con maggiore precisione – dalla sua tenuta nel tempo. Questa pandemia ci sta obbligando a guardare in direzioni nuove: sapremo farlo davvero?