“Durante il lockdown un giorno sono uscita dalla camera da letto diventata ufficio e ho visto mio marito seduto a seguire un videocorso con il nostro bimbo addormentato in braccio. All’improvviso l’ho sentito vicino come non succedeva da molto tempo.”
Silvana F.
L’emergenza Covid ha riscritto prepotentemente la quotidianità di molte famiglie, chiamate a riorganizzare i tempi, le attività, le abitudini in un contesto fatto di incertezze e contraddizioni. In questi giorni, in cui l’amara consapevolezza su quanto sia ancora grande l’incognita sulle riaperture di scuole e asili fra poco più di un mese, è più che mai necessario riassumere cosa è successo nelle famiglie italiane in questi ultimi mesi. Visto e considerato che non siamo ancora usciti dall’emergenza e abbiamo davanti lo spauracchio della seconda ondata autunnale, sarebbe forse cosa saggia guardare alla prova generale che abbiamo appena affrontato per ricavarne insegnamenti, direzioni e punti di forza emersi da valorizzare.
Cominciamo col sottolineare i punti deboli. Lo scorso maggio, verso la fine del periodo di quarantena stretto che abbiamo attraversato in Italia, WeWorld ha diffuso i dati di una ricerca condotta da Ipsos. L’indagine “Donna e cura in tempo di Covid 19”, si inserisce nella campagna #Togetherwebalance lanciata per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle difficoltà che le famiglie e i più fragili hanno attraversato (e stanno attraversando) durante l’emergenza sanitaria Covid-19.
Nel corso della quarantena, circa 1 italiano su 4 ha dovuto assistere almeno una persona bisognosa di cure: bambini, anziani o disabili. I dati raccontano che a dover gestire questa attività sono stati principalmente gli individui nella fascia centrale di età, quella dai 31 ai 50 anni e in particolar modo le donne. Il lavoro di cura si è concentrato dunque su una categoria specifica. Esattamente quella che ci si aspettava che fosse, inutile mostrarsi sorpresi.
“Mio marito ha uno stipendio molto più alto e meno precario del mio e questo fa sì che il suo lavoro venga necessariamente prima del mio. In pieno lockdown ci siamo suddivisi in modo equo il tempo, ma dalla fase 2 lui lavora molto di più. Quindi, a prescindere da come intendiamo la famiglia e le questioni di genere, tutto il lavoro domestico ricade su di me.”
Laura C.
Io e mio marito siamo liberi professionisti e nel corso della quarantena abbiamo potuto dividerci equamente il carico familiare. Poi un giorno lui ha detto che se a settembre le scuole non riapriranno dovremo trovare una soluzione, perché lui non può (giustamente) continuare così, sente che sta lavorando al 30%. E io ho realizzato che lavoro sempre al 30%… di quello che vorrei e potrei dare. Ma non me ne ero mai resa conto perché lo consideravo normale.”
Luciana G.
Occorre chiedersi quali pericoli stiamo correndo, come società intera, nel mettere a rischio una fetta consistente della forza lavoro complessiva: quella costituita dalle donne mamme di bimbi piccoli nella fascia 31-50 anni. I dati di WeWorld confermano la drammaticità di una situazione che è andata fuori controllo: da Nord e Sud, le donne sono state quelle che più di tutti hanno gestito il carico familiare: circa il 60%, contro il 21% degli uomini. Tra queste donne, le più in sofferenza sono quelle tra i 31 e 50 anni: il 71% dichiara di fare tutto da sola. Dall’altro lato c’è un 58% di uomini che dichiara di gestire il lavoro di cura in collaborazione con altre persone.
C’è dunque una percezione distorta sul carico del lavoro: gli uomini sentono di contribuire in qualche modo, ma questa collaborazione non pare essere colta dalle donne, di cui due occupate su tre sentono tutto il peso del lavoro di cura a fronte di una non occupata su due. E questo, va detto, non sempre è per una cattiva volontà dei padri. Anzi, ascoltando i racconti di alcune famiglie, scopriamo che è proprio dentro le famiglie stesse che è avvenuto qualcosa di importante in questi mesi. Una presa di coscienza, e nel migliore dei casi una presa in carico.
Io ho due attività: una impossibile da svolgere durante il lock down, l’altra ridotta drasticamente da una cassa integrazione parziale. Abbiamo trovato un nostro ritmo. Zoppicante. Ma ce l’abbiamo fatta. Mettendo tutti in campo una dose di pazienza e di speranza mai sperimentate prima.
Laura B.
Nel vedere in questi mesi come mio marito ha partecipato alla gestione familiare, mi sono detta che forse non è che gli uomini non vogliono farlo: basta metterli nelle condizioni di farlo per forza, come accade a noi donne da sempre.
Silvana F.
Mio marito, dipendente, riesce a prendere un giorno a settimana di congedo per permettermi, almeno quel giorno, di lavorare tutta la giornata.
Silvia C.
Briciole, certamente. Ciò che si può, nessun miracolo. Dove si è situato il vero intoppo? Un bug nel sistema, potremmo dire. Perchè è proprio il sistema che non è maturo per riconoscere e valorizzare queste cellule di cambiamento, se pensiamo che il problema della conciliazione è, appunto, un problema, ancora mai affrontato in modo progettuale e lungimirante, e durante la quarantena non è successo altro che l’esplicitazione di un sommerso, ancora più pesante nel caso di genitori lavoratori e senza aiuti familiari. Come racconta Carlotta, col suo compagno, entrambi italiani expat in Francia. Non è soltanto una questione di istituzioni, è una questione culturale.
“Ho la fortuna di avere orari di lavoro flessibili, ma sicuramente lo scontro più grande si è manifestato con le riunioni. I miei orari spesso non combaciavano con quelli degli altri. Questo ha dato vita a numerose tensioni, a commenti sulla mia gestione familiare. La domanda più frequente è stata: tuo figlio non ha un padre? Eppure sapevano che il padre lavora in ospedale e si occupava in quel momento di pazienti Covid.”
Carlotta A.
“Lavorativamente parlando, ho subito un cambio ruolo parziale. Ho avuto una decrescita delle perfomance, perchè dovendomi occupare anche del mio ruolo precedente, insieme a una bambina che richiedeva attenzioni, ho commesso degli errori e lato azienda non ho trovato quella comprensione o quell’aiuto che mi sarei aspettata. Ho subito il nervosismo dei colleghi che non comprendono appieno cosa significhi essere mamma e lavorare da casa, sono infatti al momento l’unica mamma in azienda. Il mio compagno ha lavorato la notte per poter sopperire a questa situazione.”
Eleonora R.
Chiamate a riorganizzare i ritmi della quotidianità dividendosi tra lavoro, cura della casa, gestione delle attività scolastiche, dei momenti di gioco e quant’altro, le donne sono dunque quelle che hanno subito il carico maggiore di questa emergenza. Tempo libero ridotto all’osso, quando non inesistente, progetti personali annullati o rinviati a data da destinarsi. L’indagine di WeWorld segnala che 1 donna su 2 ha rinunciato ad almeno un progetto, contro 2 uomini su 5. Il 40% di queste donne, nella fascia 31-50, annulla o posticipa la ricerca di lavoro. Senza dimenticare che, mentre uno dei tormentoni della quarantena riguardava la noia della vita casalinga, per molte di queste donne annoiarsi sarebbe stato un lusso.
Ho sentito moltissima differenza con chi non aveva figli: innanzitutto persone che dicevano di aver tempo per fare mille cose (leggere, guardare serie TV, fare esercizi ecc.), mentre io mi ritrovavo ad avere meno tempo libero di prima.
Chiara S.
Tempo libero pochissimo, meno dei primi mesi di maternità, e questo mi fa sentire esausta, fisicamente e psicologicamente.
Laura C.
Eppure a questo punto della storia c’è un ma. Come spesso accade, lì dove c’è un problema risiede anche la risposta al problema. Le famiglie sono una risorsa incredibile, in tutta la costellazione che le compone, ma in particolare nei nuclei genitori/figli abbiamo visto in questi mesi esplicitarsi delle competenze che andrebbero valorizzate, non ignorate.
Capacità organizzative, adattamento, ascolto attivo, creatività, rimodulazione continua della quotidianità, empatia, padronanza semiotica di più linguaggi, da quello professionale a quello scolastico a quello dell’infanzia, capacità di motivare un team a superare un momento difficile attraverso la collaborazione e la condivisione. Per non parlare della dote genitoriale per eccellenza: rispondere agli imprevisti scoprendo nuove impensabili risorse.
Ho visto tante amiche e parenti andare in depressione in questo brutto periodo. Non dirò mai “grazie alla quarantena” perché sarei un essere spregevole visto tutto quello che è accaduto, ma in questa assurda situazione sono riuscita a resettare e ripartire da me. Dopo 9 anni nella stessa azienda, sono stata licenziata e mi sono sentita libera di ascoltare il mio cuore e fare quello che per anni era stato solo un hobby delle tarde ore serali. Io che mi ero sempre rimproverata di non essere ambiziosa all’improvviso registravo un logo tutto mio. Oggi vedo i miei cambiamenti positivi riflessi in mio figlio e questa è un’immagine bellissima!
Serena D.
L’unico regalo del periodo della quarantena è stata la possibilità di conoscere alcuni vicini con i quali abbiamo finito per condividere le nostre ore d’aria. Mi sono sentita parte di una comunità, di un gruppo di genitori che cercavano, come me, di far pesare il meno possibile ai propri figli questa condizione di prigionia, supportandoci gli uni con gli altri nel quotidiano, scambiandoci ricette e confidenze. Cosa che non sarebbe mai successa in circostanze normali.
Carlotta A.
Non sarebbe bello sapere di vivere in uno Stato che sa dove guardare, durante una crisi come questa, per valorizzare le funzionalità, mentre è pur sempre impegnato a sopperire alle disfunzionalità? Vogliamo davvero accettare di trasformare queste competenze in rassegnazione e solitudine?
“Anche senza scomodare la tanto temuta seconda ondata – se le scuole non torneranno a regime non potrò permettermi di dedicare al lavoro le energie e il tempo che dedicavo prima del Covid e temo che questa lunga sospensione comprometterà per sempre la mia possibilità di restare nel mondo del lavoro in modo soddisfacente.”
Laura C.