Agli uomini sta bene la gabbia di stereotipi maschili all’interno della quale crescono?

“Perché i ragazzi non combattono con noi, quando parliamo di violenza di genere?”

È una delle domande che mi ha fatto un gruppo di studentesse. Sedici anni, frequentano il liceo e stanno svolgendo un progetto sulla violenza di genere. Ci siamo viste alle 5 di un pomeriggio nuvoloso su Teams. Immaginavo un confronto di 30 minuti e invece siamo rimaste a chiacchierare un’ora e mezzo. E forse mai come questa volta, nel rilasciare un’intervista, ho sentito il peso della responsabilità e l’incertezza nel proporre loro risposte convincenti. Nessuna mi aveva mai fatto tante domande, tutte così difficili.

Questa, come molte altre domande, ha continuato a risuonare nella mia testa per giorni. Ma in realtà sono anni che non trovo pace, quando penso al modo con cui uomini e donne sono manipolati sin dall’infanzia nella costruzione di un’immagine di genere così netta e rigida. Quello che davvero non riesco a capire è perché se l’empowerment delle ragazze avanza inesorabile (anche se ancora non abbastanza), lo stesso non accade per l’empowerment maschile.

Anche io ho l’impressione di camminare sulle uova, quando faccio queste riflessioni. Il rischio è di trasmettere il messaggio per cui le conseguenze di comportamenti e attitudini considerati tipicamente maschili non siano da colpevolizzare. Ma non si tratta di giustificare. Si tratta di capire. Osservare le origini. Ragionare sui perché. Proprio come fa la ricerca scientifica.

Perché quando parliamo di parità di genere, di uomini non si parla mai?

Mi sono sempre domandata come mai quando parliamo di parità di genere pensiamo solo alle donne. Eppure i generi sono almeno due. Che comunque è uno sguardo molto binario e per niente contemporaneo.

Il patriarcato è un costrutto sistemico. Non si sradica solo potenziando le bambine. Ma ridefinendo nuove categorizzazioni identitarie libere da stereotipi di genere.

È lo stesso pensiero che mi affligge quando vedo l’ennesimo post su LinkedIn che celebra un percorso di empowerment femminile in azienda. Guardo quelle foto e dentro di me sento una vocina che dice a quelle donne: “tu, donna, sei marginalizzata da sempre. Però il problema è il tuo. È colpa tua se non fai carriera. Impegnati e avvicinati a stereotipi maschili. È questo il tuo punto di arrivo. È tua la responsabilità far fuori il patriarcato”.

Mi affligge perché in questi progetti ci sono sicuramente molte buone intenzioni, ma di certo non c’è spazio per una trasformazione sistemica. C’è il perpetrare il peso e la responsabilità delle donne nel guidare la loro emancipazione. E non c’è il coraggio di invitare anche gli uomini alla marcia.

Con una cliente una volta ci siamo chieste: “perché non fare un percorso di empowerment maschile?”. Come mai per garantire parità di genere dobbiamo sempre spostare tutto il carico di responsabilità solo sulle donne?

E così gli uomini sono sempre un passo indietro

Il report annuale “Le ragazze stanno bene” di Save the Children evidenzia che tra il 2018 e il 2023 sono diminuiti sensibilmente gli stereotipi di genere presenti nelle ragazze. Ma questo non sta accadendo invece per i ragazzi. In sintesi: i ragazzi sono meno consapevoli degli stereotipi di genere delle ragazze. È un dato importante. Ci dice che stiamo facendo un lavoro incredibile con le bambine, a partire da giocattoli, pubblicità, cartoni animati. Le stiamo accompagnando a essere protagoniste di un futuro diverso. Ma non stiamo facendo lo stesso con i ragazzi. Per loro i messaggi, i giochi, i libri, sono più o meno sempre gli stessi. Ci stiamo impegnando a potenziare le ragazze, ma non a decostruire l’immagine culturale della virilità.

Ben Hurst, durante il suo intervento a TEDxLondonWomen, racconta di una attività che facilita con ragazzi tra gli 11 e i 15 anni, nelle scuole. Si chiama la men box (scatola degli uomini) ed è un contenitore immaginario che conserva tutto ciò che è accettabile fare o dire per un uomo. È un contenitore molto limitato. È delimitato. Hurst lavora con i ragazzi adolescenti e con loro riempie attraverso aggettivi e parole la men box. Lo fa facilitando momenti di dialogo e di empowerment, lo fa per aiutare i ragazzi a osservare questo contenitore, ma soprattutto per ragionare su come uscirne.

Durante il suo intervento Hurst dice: “La verità è che i ragazzi non sono «fatti così». I ragazzi saranno ciò che insegneremo loro ad essere. Per questo dobbiamo parlarne. […] Gli uomini della mia famiglia non mi hanno mai detto che il patriarcato era uno schifo per tutti. […] Forse non avevano le parole per dirlo, oppure non lo avevano ancora capito. […] Dobbiamo parlare di come gli uomini possano sviluppare amicizie sane, sessuali o non sessuali, romantiche o non romantiche. Abbiamo bisogno di creare una nuova visione della mascolinità. Una visione nella quale possiamo dare agli uomini uno spazio per decostruire i loro messaggi problematici. Quelli che hanno appreso rispetto a cosa significhi essere un uomo. Gli uomini hanno bisogno di aiuto per scomporre e disimparare ciò che gli è stato insegnato.”

Sentirsi uomo

Qual è stato il primo momento, nella tua vita, in cui ti sei sentito un uomo? È una delle mie domande preferite, perché mi aiuta, ogni volta, a cogliere la prospettiva di chi sin da bambino si è sentito forzatamente condizionato nel rispondere a standard comportamentali, attitudinali, fisici, proprio come succede per le bambine. Il problema è che abbiamo questa strana convinzione per cui maschi e femmine sono biologicamente diversi e quindi “sono fatti così”, che qualsiasi comportamento possa essere giustificato in coerenza con il sesso di appartenenza.

Come spiega Zoë Heller nell’articolo “How toxic is masculinity” per The New Yorker, la società ci inganna facendoci credere che le donne siano naturalmente più gentili e progressiste degli uomini.

Sempre Heller nel suo articolo passa in rassegna alcuni libri sul tema, tra cui “Storia della mascolinità” del ricercatore Ivan Jablonka. Jablonka, che argomenta il suo libro con un numero enorme di ricerche, respinge questo tipo di pensiero esistenzialista che vede al centro della questione sulle differenze di genere la natura. Differenze che in qualche modo affermano e forniscono una giustificazione biologica per i ruoli di genere tradizionali.

“Se le donne sono naturalmente più gentili e premurose degli uomini, e se gli uomini sono intrinsecamente più aggressivi e violenti” dice Jablonka “perché preoccuparsi di cambiare lo status quo?”. Secondo l’autore infatti il testosterone e altri androgeni possono avere qualcosa a che fare con una propensione maschile all’aggressività, ma gli esseri umani non sono prigionieri né della loro biologia né del loro genere.

Questa credenza vale per gli uomini ma anche per le donne. Oggi sono nervosa, ma sono fatta così, perché come donna sono più emotiva”. “Ora sei stato aggressivo, ma gli uomini sono fatti così”. “Non mi piace il calcio, ma ci sta, perché come donna sono meno portata per lo sport”. “Le donne tra di loro fanno meno squadra”. Ci chiediamo mai quanto in questi pensieri che annidano i nostri dibattiti quotidiani ci sia una verità? Oppure quanto sia il condizionamento sociale a rinforzare certi atteggiamenti?

Se la mia famiglia mi avesse messo le scarpe da calcio a partire dal mio giorno zero, se in televisione avessi visto solo donne giocare a calcio, ora probabilmente sarei una calciatrice. E probabilmente qualcuno direbbe “è portata, perché le donne sono più portate per il calcio”. La biologia fa la sua parte, ma niente pesa quanto il condizionamento sociale. Non siamo gli uomini e le donne che ci aspettiamo di essere sin dalla nascita, lo diventiamo crescendo a forza di stereotipi e rinforzi nocivi.

Questo messaggio non deve in alcun modo essere frainteso con un ah, quindi siamo tutti uguali”. Siamo diversi ed è bello che sia così. Ma la vera domanda è: quanto le nostre unicità sono forzate e condizionate dalla società? Quanto siamo ciò che vorremmo davvero essere?.

Ci penso spesso in riferimento a me, come donna. Ma lo faccio molto meno quando osservo gli uomini. “Non piangere, non mostrare fragilità, non ascoltarti nel profondo, sii una roccia, combatti implacabile, occupati della famiglia, tutto dipende da te”. Sono mandati pesanti, che solo facendoci più caso osservo in tutte le mie interazioni sociali con uomini, nessuno escluso. Riesco a vedere il peso del condizionamento sociale. Un peso di cui nessuno si occupa. Un peso che non solo deve essere molto faticoso da sostenere, ma che ingabbia in aspettative irremovibili. E così le bambine sono sempre più consapevoli, mentre gli uomini bambini arrancano nella fatica di non poter costruire liberamente la propria identità. È come se qualcuno stesse cercando di aprire il lucchetto della gabbia delle donne, ma avesse invece buttato la chiave di quella degli uomini.

Decostruire gli stereotipi da uomini

Perché non esiste un influencer uomo etero che fa divulgazione contro la mascolinità tossica? Se fantastico riesco a immaginarlo: un mondo in cui gli uomini possano sentirsi liberi di essere quello che vogliono; un mondo in cui è accettabile non saperne di calcio, in cui è accettabile perdere i capelli, ma è ancora più accettabile soffrire per la perdita dei capelli (e ancora di più, è accettabile parlarne); un mondo in cui è ok non avere gli addominali, è ok scoppiare a piangere in riunione quando il clima si fa teso. Riesco a immaginarlo, questo mondo pieno di libertà.

Ma ancora di più riesco a immaginare un mondo che si occupi di sconfiggere gli stereotipi maschili. È da tempo che cerco disperatamente qualche role model positivo: influencer uomini, etero, italiani, che promuovano messaggi di body positivity sui social, che abbraccino la lotta agli stereotipi di genere. Ci sono donne che lottano contro la grassofobia esponendo il proprio corpo, altre che lottano contro le leggi non scritte che ci vogliono depilate dalla testa ai piedi, esponendo i propri peli. Donne che ci invitano a darci il permesso di arrabbiarci e essere arrabbiate senza riserva. Queste donne, per me, sono e sono state importanti, perché hanno dato coraggio a me e a molte altre donne per osservare gli stereotipi e per decostruirci.

Aspetto con ansia che questa campagna di advocacy avvenga anche per gli uomini: vedere un influencer etero, italiano esporre il proprio corpo non conforme, raccontare dell’autostima che crolla quando si perdono i capelli, mostrarsi fragile, piangere. Aspetto con ansia questo momento, e intanto mi chiedo come mai non sia ancora arrivato e quindi sono stata io a domandarlo al gruppo di studentesse.

Le ragioni, loro dicono, sono due. Innanzitutto se non sei un uomo standard, allora cosa sei? La risposta possiamo sentirla echeggiare in un numero infinito di linguaggi e conseguenze. Se non sei un uomo standard, nel migliore dei casi sei una femminuccia e nessun uomo vuole essere una femminuccia. E se sei una femminuccia non hai molto da spartire con i tuoi compagni e quindi la conseguenza è l’isolamento, la marginalizzazione, la perdita di quella cosa così importante per le nostre fragili identità: l’appartenenza.

La seconda ragione è che c’è più da perdere che da guadagnare esponendosi in questo senso. Alla fine la posizione di uomo standard è per tanti motivi una posizione di privilegio. Il bisogno di trasformarsi, emanciparsi, evolversi, ha origine da oppressioni sociali subite e se non soffri le oppressioni sociali non ha molto senso cambiare lo status quo. Manca, quindi, la motivazione intrinseca, oltre che il bisogno. C’è quasi più da perdere che da guadagnare, nell’essere sé stessi. Questa è la storia degli uomini.

E questa è anche la risposta che ci siamo date con la cliente ragionando sul percorso di empowerment maschile. Oltre che essere una forzatura non desiderata quella di trovarsi chiusi in una stanza a sviscerare gli stereotipi interiorizzati, sarebbe mancato il senso di urgenza, il bisogno, la motivazione profonda, per questo è più semplice pesare sulle donne, che sono più consapevoli e per questo gli uomini spesso non combattono. C’è troppo da perdere e molto meno da guadagnare.

Decostruire gli stereotipi maschili salverà anche gli uomini

Questa tendenza a lasciare gli uomini a latere del dibattito sulla parità di genere, come la loro resistenza nel trovare motivazione, procrastina rischi enormi. Rischi per le donne, e questo lo sappiamo, ma rischi enormi anche per loro. In cima alla lista, la salute mentale.

Gareth Griffith, dottorando in metodi di analisi quantitativa all’università di Bristol, ha raccontato durante il TEDxUniversityOfBristol la sua esperienza. Dopo aver sofferto di una pesante depressione e aver provato a togliersi la vita, ha deciso di specializzarsi in salute mentale, benessere e analisi quantitative. In particolar modo ha approfondito l’efficacia degli strumenti con cui solitamente misuriamo la salute mentale.

Griffith racconta che il metodo più utilizzato per misurare il malessere è l’auto-valutazione. Domande rivolte ai rispondenti che chiedono “come si senti? Quanto ti senti bene rispetto a questo? Quanto male rispetto a quest’altro?”. Da un’analisi svolta nel Regno Unito, su un campione di 250 mila persone, emerge che il gruppo più a rischio di malessere mentale è rappresentato da donne, bianche, giovani e non sposate. Griffith riporta questo dato segnalando due enormi criticità. Da una parte il bisogno di investire su questo target, dall’altro l’incongruenza del dato con il tasso di suicidi registrati. Infatti, sempre nel Regno Unito, il suicidio è il rischio principale di morte per uomini sotto i 45 anni. Eppure dalle autovalutazioni gli stessi uomini rispondono di stare “bene”. Il problema, dice Griffith, è l’incapacità degli uomini di riconoscere e verbalizzare le emozioni, articolare i pensieri e condividerli. È un’incapacità perché nessuno gliel’ha mai insegnato. Ed è lo stesso motivo per cui Griffth, molti anni prima del suo TEDx, ha tentato di togliersi la vita.

C’è un solo modo per salvarsi

Aiutati che Dio ti aiuta, ci diciamo in terre cristiane. Ma la verità è che nessuno si salva da solo. Nessuno si salva senza alleanze, motivazione e sistema di supporto. Le studentesse che stanno sviluppando il progetto sulla violenza di genere non si salveranno da sole. Un ragazzo che soffre di depressione e non sa verbalizzarlo, non si salverà da solo.

Senza l’ambizione di costruire delle soluzioni universali e del tutto sistemiche, ma con la presunzione di credere nel valore dell’alleanza, possiamo rinnovare a partire da oggi dei nuovi impegni.

A livello istituzionale investire nella formazione nelle scuole, ma non attraverso percorsi di empowerment o sensibilizzazione per le bambine, o almeno non solo. Farlo soprattutto come ha fatto Ben Hurst con la sua “men box”: lavorando con i bambini, sin dall’asilo. Lavorare con loro per decostruire, perché, purtroppo, bambini e bambine vengono categorizzati da molto piccoli e non è mai troppo presto per decostruire. E per abilitare spazi di dialogo: insegnare il potere del confronto e della verbalizzazione. Imparare ad ascoltarsi e a condividere senza vergogna.

Come donna, l’impegno che mi prendo è di parlare a bambini, ragazzi, uomini senza rinforzare messaggi del tipo “siete fatti così”. E di decostruire le aspettative che ho in termini di standard di bellezza e di conformità.

Per i protagonisti uomini di questo articolo, l’invito è quello di tenderci la mano e percorrere insieme questo viaggio di decostruzione; di iniziare con delicatezza a osservare la fragilità e la prepotenza di questa scatola piena di aspettative di genere; di togliere da lì qualche parola e di sperimentarne di nuove. È un processo un po’ doloroso e fa anche paura. Sappiamo cosa lasciamo, ma non cosa troveremo. Io lo so, noi donne lo sappiamo: il premio della libertà è molto più gratificante del prezzo dello stereotipo.

Costruiamo spazi di confronto, a partire da oggi, in ambienti che consideriamo sufficientemente sicuri per poter essere chi vogliamo essere davvero, facciamolo con amici o con amiche, con le mamme o con i papà. Intraprendiamo un dialogo interiore e condiviso e usciamo allo scoperto, per non sentirci più soli.

C’è un solo modo per salvarci: abbracciare insieme questa battaglia e farlo con la tenerezza di chi sa osservarsi senza giudizio, ma anche con la rabbia di chi sa che i condizionamenti sociali ci hanno costretti a essere chi, forse, non avremmo voluto essere. C’è solo un modo per abbracciare questa battaglia: farlo insieme perché è l’unico vero modo per liberarci tutti e tutte. Nessuna e nessuno escluso.

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