In tutto il mondo le donne lavorano soprattutto nei settori della cura

Cosa ci immaginiamo quando pensiamo a un software developer? E chi lavora in una scuola? Chi ci aspettiamo di incontrare in una casa di cura andando a visitare un parente anziano? Molto probabilmente, semplificando, nel primo caso visualizzeremmo un millennial (uomo) e negli altri due una donna, probabilmente di mezza età: in entrambi i casi, avremmo descritto la realtà dei fatti. A livello mondiale.

Secondo i dati più recenti a disposizione, nelle occupazioni legate alla cura (dell’infanzia, dei malati o degli anziani) la presenza delle donne a livello globale è predominante al punto da raggiungere percentuali di oltre il 90%. All’estremo opposto, le occupate nel ICT (information and communications technology) sono sotto rappresentate. Nell’ingegneria civile e tra gli sviluppatori arrivano, poi, al massimo al 10%.

Differenza di genere nei lavori

La situazione, che non è affatto nuova, non sembra nemmeno far presagire grandi o repentini cambiamenti dello stato attuale. Almeno non nel breve periodo. Ancora oggi la differenza di genere rimane acutissima in molti settori, come resta evidente e diffusa una forte disparità in tema di posizioni occupate, anche all’interno di specifici settori, o in alcuni ambiti rispetto ad altri.

Qualche esempio? Le donne, come segnalato, rappresentano la maggioranza delle professioniste impiegate nella scuola (in qualsiasi occupazione, dall’insegnamento, alla cucina alla pulizia degli spazi). Sono, poi, sovrarappresentate nella produzione di abbigliamento, mentre mancano quasi del tutto nell’industria mineraria o nelle costruzioni. Se arrivano a occupare posizioni manageriali, le percentuali della loro presenta precipita evidentemente salendo sulla scala della leadership anche nei settori dove costituiscono la (stra)grande maggioranza della forza lavoro.

L’assistenza alla persona

I numeri parlano chiaro e descrivono la situazione immutata da tempo: le donne sono insegnanti elementari e maestre d’asilo; si occupano della cura degli anziani e svolgono per nella stragrande maggioranza dei casi, lavori ostetrici (midwifery). Secondo le più recenti rilevazioni, globalmente rappresentano il 67% della forza lavoro impegnata nel settore dell’assistenza (care employment). Con punte registrate in Bielorussia, Georgia, alle Seychelles e in Slovacchia dove arrivano a essere quattro su cinque degli occupati in questo ambito. Un po’ ovunque rappresentano la quasi totalità dei lavoratori domestici impiegati direttamente da famiglie o privati.

Questo tipo di divisione per generi per settori di professione, appare comprensibile. Non per questo però, con la sofisticazione a cui oggi siamo tutti più abituati, può essere accettato come dato di fatto immutabile o inevitabile. Percentuali così marcate in certi settori (tra cui anche alcune professioni tra le peggio pagate e con contratti più fragili), mostrano infatti anche il perpetrarsi di gravi disparità di opportunità e acceso a posizioni, contratti e/o salari migliori.

L’ILO (International Labour Organization) metteva in prospettiva la situazione a fine novembre, segnalando come questo divario che influenza il mercato del lavoro femminile e l’indipendenza economica, richieda una profonda e urgente revisione anche delle stesse politiche assistenziali in termini di genere. In un’epoca di crescita della «domanda di cura dovuta a fattori come i cambiamenti delle strutture familiari, l’invecchiamento della popolazione e il cambiamento climatico» è urgente intervenire «per rispondere all’incremento delle richieste (di assistenza) e per mitigare i vincoli alla partecipazione al mondo del lavoro delle donne, la loro equa rappresentazione nella società e nei processi decisionali».

La lenta ascesa verso la cima

Se qualche timido cambiamento sembra avvenire in alcuni settori – STEM in testa e più in certe parti del mondo che in altre -, restano grandi le sfide interne agli ambiti, in tema di accesso alle professioni e, poi, di avanzamento di carriera. Nonostante decenni di lavori e discussioni in materia, oggi nel middle management le donne rappresentano il 36%. Percentuale che, per quanto con alcune evidenti differenze su base nazionale, scende di molto se si guarda alle posizioni di vertice, alla composizione dei cda, per esempio, o al numero di CFO o amministratori delegati.

Volendo restituire un quadro più completo, le donne ricoprono posizioni manageriali soprattutto in aree tradizionalmente considerate ad appannaggio femminile, per esempio, ancora una volta, l’assistenza alla persona. Rappresentano infatti l’89% dei manager in servizi per l’infanzia e il 78% in quelli per la cura degli anziani. All’estremo opposto, però, la loro bassissima presenza in certi settori lavorativi le vede (quasi) completamente sparire già a livello manageriale, con il picco più basso registrato nelle attività estrattive. Qui le responsabili con compiti direttivi sono l’1%.

Tra questi due picchi di presenza/assenza delle donne nella leadership, un certo equilibrio si registra in ambiti di pubbliche relazioni, risorse umane, finanza e servizi alle imprese dove i manager sono tendenzialmente equamente divisi per genere. Ma nemmeno questi settori si dimostrano virtuosi ai vertici, avendo solo un quinto di direttrici generali o amministratrici delegate. Sottolineano da ILO «Questi risultati non solo riflettono un gap numerico, ma soprattutto di opportunità, empowerment e percezione» delle possibilità. Per le neo-assunte, le studentesse, certo, ma anche le professioniste con esperienza.

Il Nobel per l’economia

Quest’anno il Nobel per l’economia è stato conferito a Claudia Golding (terza donna nella storia del premio a ricevere questo riconoscimento) per la sua ricerca sull’occupazione femminile. Con i suoi studi, ha contribuito a identificare le maggiori determinanti delle differenze di genere. Caratteristiche illustrate negli anni che ancora oggi contraddistinguono il mercato del lavoro mondiale.

Lo segnalano i dati, lo confermano le tendenze e la narrativa corrente. Per quanto in alcuni settori le donne stiano iniziando (timidamente) a costruirsi uno spazio, la loro assenza in particolari ambiti e posizioni resta evidente. Il persistere di stereotipi, poi, ne condiziona restringendole, le scelte di studio e lavoro e limita le opzioni di carriera.

Succede, per esempio, negli ambiti scientifici e tecnologici. Nè le studentesse stanno “invadendo” i percorsi STEM, né le professioniste rappresentano ancora numeri consistenti in settori come le tecnologie e i prodotti digitali. Ambiti di lavoro, in prospettiva tra i più sicuri tra i meglio pagati, e già oggi contraddistinti da un grave (secondo le proiezioni in peggioramento) divario tra posizioni aperte/profili adatti a ricoprirle.

Tradotto in altri termini, il persistere di certi modelli che limitano già l’immaginarsi di poter affrontare certi percorsi, riduce le possibilità di indipendenza economica personale. Persino in settori innovativi, dall’impatto potenzialmente dirompente e in certo modo più accessibili in termini di formazione. Insomma, ancora oggi e già da piccole, le ragazze partono più arretrate.

Rischiamo di perdere un contributo fondamentale soprattutto di quelle generazioni che necessariamente saranno incaricate di sviluppare – tra le altre cose – le tecnologie future e contribuire ad ampliare, guidare e sviluppare le potenzialità dell’AI e delle tecnologie più avanzate*, oggi solo parzialmente immaginabili.

Senza contare che tra loro, probabilmente potrebbero esserci i primi gruppi di umani a mettere piede su Marte.


* Per esempio, secondo i dati dello studio predittivo “Il futuro delle competenze nell’era dell’Intelligenza Artificiale” realizzato da EY, ManpowerGroup e Sanoma Italia I’impatto dell’IA sarà significativo per il 75% delle professioni.

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