Parità di genere, l’estate calda delle leggi per le donne

Cresce nel mondo la consapevolezza pubblica che i diritti delle donne e una piena partecipazione di queste alla società siano imprescindibili per la prosperità (anche economica) dei Paesi. Diverse sono le iniziative di legge che, proprio in questi mesi, sono state implementate o sono in discussione in tutto il mondo e che hanno come minimo comune denominatore l’uguaglianza tra i generi. Dal Brasile al Pakistan passando per Stati Uniti ed Europa, ecco tutti gli ultimi provvedimenti.

Contrasto alla violenza di genere tra Usa e Europa

Mentre gli Stati Uniti si sono appena dotati della loro prima legislazione contro la violenza sulle donne, l’Unione Europea ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (“Convenzione di Istanbul”).

Il 28 giugno, in una cerimonia tenutasi al Palais de l’Europe, l’ambasciatore Mårten Ehnberg, rappresentante permanente della Svezia presso il Consiglio d’Europa (presidenza in carica del Consiglio dell’Unione europea), e Helena Dalli, commissaria europea per l’uguaglianza, hanno depositato lo strumento di approvazione della Convenzione di Istanbul. A oggi, il trattato è stato ratificato da 38 parti (37 Stati e l’Unione Europea), firmato da tutti gli Stati membri dell’Ue e ratificato da 21 (Italia compresa). Il trattato apre la via all’istituzione di un quadro giuridico a livello paneuropeo al fine di proteggere le donne contro ogni forma di violenza ma anche di prevenire, perseguire ed eliminare la violenza nei confronti delle donne e quella domestica. La Convenzione stabilisce inoltre uno specifico meccanismo di monitoraggio, il Grevio, per garantire l’effettiva attuazione delle sue disposizioni. La Convenzione entrerà in vigore per l’Unione il 1° ottobre 2023.

Oltreoceano, nelle scorse settimane la Casa Bianca ha pubblicato il suo primo Piano d’azione nazionale per l’eliminazione della violenza di genere. Il programma è incentrato sulla prevenzione e sull’affrontare la violenza sessuale, quella da parte del partner, lo stalking e altre forme ancora. Nello specifico, il piano statunitense include sette pilastri su cui l’amministrazione Biden concentrerà i suoi sforzi, tra cui prevenzione; ricerca e dati; supporto e sicurezza e risposta alle crisi.

Il piano di Islamabad

10,4 miliardi di rupie, circa 40 milioni di dollari, è quanto il Pakistan ha stanziato con l’Initiative for Women Empowerment, un nuovo piano per migliorare la condizione dei diritti femminili nel Paese. Il progetto è stato presentato dal primo ministro pakistano Shehbaz Sharif nei giorni scorsi. 

I fondi saranno impiegati nella creazione di opportunità per la partecipazione delle donne nella società e per compiere ulteriori sforzi nella tutela dei diritti femminili (vengono citati ad esempio quelli per l’eredità). Durante la cerimonia di lancio, Sharif, ha dichiarato che le donne “sono il motore trainante dell’economia del Paese e fungono da costruttore della nazione“, tuttavia la loro posizione resta di netta subalternità sotto diversi punti di vista.

Secondo il World Economic Forum, il Pakistan si trova al 142esimo posto nel mondo per quanto riguarda i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere. Sul fronte economico, secondo il Pakistan Economic Survey 2020-21, il tasso di partecipazione della forza lavoro femminile è solo del 22,8%, rispetto all’86% degli uomini. Le donne inoltre sono spesso relegate a lavori poco retribuiti e informali e hanno un accesso limitato alle opportunità di istruzione, formazione e promozione. Per il Pakistan Population Council, il 48% delle donne nel Paese è analfabeta e solo il 10% può prendere decisioni sulla propria salute.

Proprio l’emancipazione e l’inclusione delle donne, però, potrebbero guidare la crescita e lo sviluppo del Pakistan, essenziale per rilanciare la sua economia. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, il pil del Paese asiatico – il quinto più popoloso al mondo – potrebbe aumentare del 60% entro il 2025 se la forza lavoro femminile diventasse uguale a quella maschile.

Donne al lavoro dal Brasile al Giappone

Sui tavoli delle istituzioni brasiliane c’è invece il dossier della disuguaglianza salariale di genere. Si stima che le donne brasiliane guadagnino, in media, il 78% dello stipendio di un uomo. Così, a inizio luglio, dopo un primo passaggio alla Camera bassa, il Paese ha approvato una legge che impone alle aziende di azzerare il divario retributivo uomo-donna. Chi non adeguerà i salari rischia una multa pari a un massimo di dieci volte l’importo dello stipendio più alto pagato. La parità di retribuzione tra uomini e donne è prevista dalla legge brasiliana dal 1943, ma il divario nella realtà resta. “Le donne aspettavano questo giorno da almeno 80 anni“, ha commentato la ministra delle Donne Cida Gonçalves.

Legislatori all’opera anche in Giappone dove il governo ha approvato una politica volta ad aumentare il numero di donne in posizioni dirigenziali. Si parte dalle società quotate al Tokyo Stock Exchange Prime Market. L’obiettivo è portare la soglia di donne ai piani alti delle aziende al 30% entro il 2030. Il passo intermedio richiede invece la presenza di almeno una donna nel consiglio di amministrazione di tutte le società dell’indice entro il 2025. 

Il Giappone è in ritardo rispetto ad altre economie avanzate in materia di uguaglianza di genere sul posto di lavoro. A maggio, su 1.835 società quotate nel Prime Market, solo il 2,2% raggiungeva o superava la soglia del 30%, o più, di donne in posizioni dirigenziali mentre circa il 20% non aveva alcuna donna executive. Le imprenditrici, stima Bloomberg, sono l’8,8% mentre il piano per il governo è portare questa percentuale al 20%.

20 anni dal Protocollo di Maputo

Se molti Paesi stanno prendendo le misure con nuove leggi, per altri è il momento di fare il punto sui progressi fatti.

È il caso delle nazioni dell’Unione Africana che hanno ratificato, nel luglio 2003, il Protocollo di Maputo, strumento giuridico per la promozione e la protezione dei diritti delle donne in Africa. A 20 anni dalla firma, alcune associazioni si sono unite per  pubblicare la relazione 20 anni del Protocollo di Maputo: a che punto siamo? che riassume i progressi compiuti nel continente. Il protocollo stabiliva diritti economici e sociali e affrontava questioni cruciali che riguardano la vita delle donne, come l’emancipazione o la condanna esplicita di alcune pratiche dannose per la salute.

Il rapporto rivela che i progressi ci sono stati ma non sono distribuiti uniformemente, con alcune aree che mostrano risultati migliori rispetto ad altre. I diritti economici e sociali sono notevolmente migliorati negli stati membri dell’UA, con oltre il 50% dei Paesi africani che hanno emanato leggi che impongono la parità salariale. In dieci nazioni sono state attuate anche disposizioni costituzionali che stabiliscono quote di rappresentanza femminile nelle legislature.

Restano alcuni fronti aperti, sfide a cui i governi africani sono chiamati a dare priorità. Tra tutte, l’eliminazione delle pratiche tradizionali dannose, il contrasto alla violenza di genere e la fine delle discriminazioni contro donne e ragazze.

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