Da decenni le ricerche globali ci dicevano che qualcosa non funzionava. Il termine più usato per descrivere le condizioni in cui versava una percentuale crescente di lavoratori nelle economie sviluppate era “disengagement”. Ovvero, disimpegno e distacco emotivo nello svolgimento del proprio incarico, con ricadute dirette in termini di assenteismo, turnover, qualità dei servizi, fedeltà dei clienti, che si traducono in minore redditività del business.
Lo shock pandemico del 2020-2021 ha fatto saltare il banco. In generale, le persone – dopo un primo momento di disorientamento in cui si sono strette attorno al proprio lavoro per timore di perderlo – hanno mollato gli ormeggi. E quel poco che rimaneva dell’engagement ė colato a picco: le ultime rilevazioni del Global Workplace Report 2022 di Gallup – condotto su 150.000 persone in 160 Paesi – rilevano un senso di appartenenza all’azienda a livello globale pari al 21%, in Europa al 14% e in Italia al 4%.
Il risveglio collettivo
Ma qualcosa di dirompente ė successo. Se in passato prevaleva un atteggiamento passivo rispetto a un mondo del lavoro poco soddisfacente, dopo la pandemia stiamo assistendo a una sorta di risveglio collettivo. Le persone, consce della fragilità della vita e consapevoli del potere delle tecnologie digitali, non sono più disposte ad accettare condizioni che ritengono inadeguate. Per comprendere cosa sta accadendo, servono nuove prospettive di ricerca e nuove metriche, come quella avviata dall’Osservatorio BenEssere Felicità, che da 3 anni misura lo stato di salute, della felicità e del benessere dei lavoratori, sia nella dimensione aziendale sia in quella individuale e sociale.
Ciò che emerge dall’ultima survey – condotta su 1106 persone occupate appartenenti alle quattro principali generazioni – ė una crescente intenzione a cambiare lavoro, che nella Generazione Z ė passata dal 37,4% del campione nel 2002 al 59/9% nel 2023, nei Millennial dal 49% al 52,6%,, nei Baby Boomers dal 17,9% al 24,1%, mentre nella Generazione X è rimasta stabile al 42,3%.
Oltre alle contingenze vissute negli ultimi anni, la ricerca indaga le cause profonde di un disincanto cosi diffuso, ponendo domande piuttosto scomode per un mercato del lavoro rigido e poco attento a politiche di valorizzazione e sviluppo delle persone, come quello italiano. Ad esempio: “I tuoi meriti vengono sempre riconosciuti?” Su tutte le fasce di generazione la survey registra una contrazione delle risposte rispetto al 2022, che si attestano tra il 3,26 e il 3,51 su una scala da 1 a 6. Ne consegue un calo forte e generalizzato del senso di appartenenza all’azienda, che i ricercatori leggono come impatto diretto del mancato riconoscimento del lavoro delle persone.
Sono dati preoccupanti, che si stanno riflettendo in un drammatico shortage di lavoratori in tutti i settori.
Stress e depressione
Un altro punto di vista ė quello dell’AXA Mind Health Report, una ricerca condotta annualmente da AXA con IPSOS, giunta alla terza edizione. Nel 2023, il Mind Health Index ha valutato il benessere psicologico in 16 Paesi tra Europa, Asia e America, raccogliendo dati sulla percezione della condizione mentale delle persone e su quanto il mondo circostante la influenzi. In generale, emerge un quadro a tinte piuttosto fosche, in cui l’Italia spicca per stress e depressione e dove, a soffrire di più, sono le donne (in particolare per sessismo quotidiano e disparità di genere) e i giovani (per l’incertezza del futuro, solitudine e insoddisfazione della propria immagine corporea).
Ma è il focus sul benessere percepito sul workplace – strettamente correlato al benessere mentale generale della persona – che riserva le peggiori sorprese. L’Italia è il Paese europeo con il minor numero di persone in “flow” (15%, rispetto a un 67% “quasi in flow” a livello globale), ovvero pienamente “focalizzati sugli obiettivi professionali, goal oriented e fattivi”, condizioni che riducono l’intenzione di dare le dimissioni: secondo la ricerca, migliore è lo stato mentale, minore è l’intenzione di cambiare lavoro, la pensa così il 75% del campione”). Ma il Report evidenzia anche i fattori su cui agire in modo sistemico, per creare condizioni favorevoli: il lavoro ibrido, il supporto alla Mental Health del datore di lavoro, un forte match tra competenze e lavoro, il controllo del carico di lavoro, il supporto allo sviluppo delle competenze, obiettivi e aspettative chiari.
Perché si lascia il proprio Paese?
In carenza di tali condizioni, dunque, ė difficile fidelizzare le persone e attrarne di nuove, dentro e fuori i confini italiani. A individuare le cause principali di espatrio nei Paesi europei e le motivazioni di un possibile rientro ė uno studio datato 2021 di chEuropa, associazione che promuove la mobilità del lavoro intra-europea.
Si parte per lo più spinti da principali desiderata: stipendi più competitivi soprattutto per laureati, giovani e lavoratori nel settore privato; maggiore valorizzazione del merito, esigenza trasversale a tutti i profili; percorsi di carriera con più respiro internazionale; maggiore apprezzamento per il proprio lavoro, in particolare per i giovanissimi e coloro che hanno avuto esperienza enti culturali e piccole imprese.
A valle della pandemia, lo studio rivela l’intenzione di rientrare in modo permanente in Italia da parte di 260mila italiani, di cui 600mila pronti a farlo alle condizioni suindicate. Anche se gli ultimi dati dell’Istat registrano nel 2021 solo 75mila rientri, si tratta del numero più alto di sempre.
Da qui nasce, l’iniziativa “Bentornata, Italia!”, di ChEuropa, Tortuga e Forum della Meritocrazia, una survey rivolta a chi ė tornato di recente per comprendere motivazioni, aspettative, peso delle “condizioni di contesto” (ambiente, sistema pensionistico, sanità, ecc.), canali di accesso al lavoro (e del network) ed eventuale utilizzo degli incentivi fiscali. E darne riscontro a policy maker e player del mercato del lavoro, per cogliere l’opportunità di una svolta necessaria.
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