Vedere più donne non cambia ancora la storia, ed è la storia a dover cambiare

Dire “donna” è di moda: forse finalmente, forse senza quella patina di paternalismo affettuoso a cui il termine è stato condannato fino a poco fa, anzi, con un filo di rivalsa e un senso, quasi, di nuovo femminismo.

Ma c’è da stare attente: è già successo e non è bastato, le voci nuove possono affondare come sassi in uno stagno di cui smuovono appena, e solo superficialmente, l’acqua.

Il problema è che le storie che ci raccontiamo sono incomplete. Non sono sbagliate, ma sono parziali.

Ed è difficile, arricchire le storie, perché il tessuto della narrazione esistente ha un peso, un’influenza su ciò che può trovarvi posto, raggiungendo così la nostra attenzione e avendo un impatto sulla nostra conoscenza. Ciò che “c’è già” seleziona, mette in luce o nasconde ciò che arriva, le storie nuove. Per esempio…

Mia figlia, primo liceo classico, studia la civiltà cretese e da nessuna parte c’è scritto che era un matriarcato: non c’erano armi, la società era egualitaria e senza caste, si adorava la fertilità ed erano civiltà molto avanzate e popolose per quell’epoca. Furono distrutte e conquistate dai Micenei, che invece le armi le avevano e avevano dei re. Maschi, ma neanche qui si parla di patriarcato: un governo maschile è standard, uno femminile è invisibile, in entrambi i casi il pericolo non sta nella bugia ma nel non detto, nel sottinteso.

E poi: su un palco si parla di maternità, per far capire di che si tratta si rivela la fatica, la corsa, l’inadeguatezza e si accenna all’amore, alla dolcezza. E anche questa storia non è sbagliata, ma è incompleta. E’ fatta di frammenti riconoscibili, ma le manca la vera complessità che si nasconde nell’esperienza della maternità: antropologicamente, una fase di crescita ricca ed essenziale verso l’adultità; sentimentalmente, un’opportunità come poche altre per amare; biologicamente, una scoperta del corpo, ma anche una potenziale frattura verso l’abisso di scompensi ormonali da cui può essere difficile rialzarsi. Ci sarebbe così tanto da dire, sulla maternità, così tante storie, così tanta storia.

Ma anche: dire donna va di moda, ultimamente, e quindi le copertina si riempiono di modelli. Per una volta non modelle ma proprio “modelli di donna”, e l’attenzione corre alla didascalia, la professione, la ragione per cui quel volto è lì, che cosa può insegnarci e farci immaginare, come può ampliare il nostro senso della possibilità.

E anche quelle sono storie incomplete: nascondono le battaglie, i casi, le scelte e le coincidenze, la complessità che c’è dietro a ogni “ce l’ho fatta”, le guerre col passato e le rinunce del presente in nome di un futuro che esige il coraggio di essere le prime, le più viste, dei simboli.

E poi, la vista dei modelli nasconde le storie di tutte le altre: le invisibili, le sempre inadeguate, le guerriere del tran tran quotidiano, quelle che non possono scegliere mai perché non hanno margini, e la vita si compone solo un giorno alla volta. Come quella mamma che ogni mattina lasciava la sua bambina davanti alla porta della materna ancora chiusa, perchè altrimenti sarebbe arrivata tardi in fabbrica e avrebbe perso il lavoro. Vittime di guerre che non hanno scelto, di regole che non le prevedono, di sistemi che non cambiano. E di un’invisibilità che non le contempla: le loro storie non dette sono lo sfondo grigio che esempi, premi e celebrazioni costellano di punti colorati.

In cinquant’anni, la condizione delle donne in Italia è cambiata drammaticamente poco: c’é sempre stato qualcosa di più urgente o importante di cui occuparsi, e le donne hanno risolto quel che non veniva risolto per loro, adattandosi e riparando i guai del quotidiano. Eterne cenerentole, non hanno avuto così il tempo né la possibilità di arricchire la storia con le proprie storie, e magari così facendo di cambiarla: per sè e per tutte le altre dopo di loro.

Che si veda, dunque, che le donne ci sono, ma che non si pensi che questo sia abbastanza, né che vederne (finalmente) alcune voglia dire vederle tutte.

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