“A volte ho la sensazione che diventare madre sia come entrare in una specie di setta i cui membri sono protetti, ma non contano nulla: non prendono decisioni, non possono avere opinioni. Stanno dentro a una bolla di sapone, da cui vedono tutto ma non partecipano a niente.”
Era il 2017 quando scrivevo queste parole, mio figlio aveva poco più di un anno e io, neomamma di 38 anni, stavo cercando di sopravvivere all’idea che la me stessa che conoscevo non esisteva più. Non che fossi così ingenua da credere che sarei rimasta la stessa persona. Ma se è vero che nella vita si cambia e si muta continuamente, si cresce, si apprendono nuove competenze, si impara a conoscersi sempre meglio, è altresì vero che ai modi in cui ci cambia la maternità non siamo mai davvero preparate.
Mi piacerebbe parlare di genitorialità, anzichè di maternità. E forse un giorno potremo farlo, potremo abbandonare l’ideale materno come assoluta rappresentanza di una funzione che di fatto può essere svolta da entrambi i genitori, ma al momento pare che ancora tutta la responsabilità e il peso di farsi travolgere dallo tsunami del cambiamento sia a carico della donna. Perchè le donne danno alla luce, mi si risponderà. Certo, ma è questa l’unica cosa che davvero per natura spetta a loro, la gestazione e il parto. Il fatto che poi siano sole e debbano gestirsi da sole il puerpuerio, l’infanzia, l’educazione, l’organizzazione familiare, la cura, le scelte quotidiane, le rinunce professionali, i lavori part-time, le dimissioni volontarie, i colloqui di lavoro con le domande sulla vita privata, è un bug nel sistema che ormai dovremmo essere pronti a riconfigurare.
Molti padri lo stanno già facendo. Dalla presenza in sala parto che diventa sempre più consapevole e meno accessoria, fino ai cambiamenti nei congedi di paternità (che in molti Paesi europei rendono ridicoli i dieci giorni italiani), i padri stanno dimostrando di essere più avanti delle Istituzioni nel partecipare attivamente a un cambiamento di senso nel concetto di famiglia. E questa presenza è non solo fondamentale per il cambiamento, ma preziosa, anche. Risuonano forti le parole del papà del neonato morto recentemente a Roma, all’Ospedale Pertini, quando spiega che la sua compagna dopo il parto era stremata e ha dovuto da subito prendersi cura del bambino da sola, sebbene fosse in ospedale. Questo padre ha detto senza giri di parole: «Non è giusto che le donne siano lasciate sole nei reparti dopo il parto. Se ad altre mamme non è capitato, è solo perché sono state fortunate».
La solitudine delle madri
«Una volta che hai partorito smetti di esistere», mi scrive Angela T. 36 anni, che ha una bimba di pochi mesi. Inizia il suo racconto sottolineando quanto ami la sua bimba, quasi a giustificarsi di quello che mi sta per dire, come nota acutamente lei stessa. «Dopo la tragedia di Roma ho sentito ancora più forte la mia solitudine. Ho pensato che davvero poteva succedere a tutte noi. Da quando sono diventata mamma non sento più nessuno. Forse per una forma di rispetto nei confronti della bambina, anche i colleghi e le colleghe non mi chiamano più. Ma ho la sensazione che in quanto mamma ho perso di interesse. Infatti lavorativamente non avrò più il ruolo che avevo, sarò una persona totalmente diversa. In qualche modo mi sto sentendo inutile. E sola».
Paranoie da post-parto? Roberta D., 40 anni, ha un figlio di 6 anni, ma anche lei racconta un vissuto di solitudine: «Diventare madre è la cosa che più mi ha messo alla prova e nel momento in cui ho cercato appigli, ne ho trovati pochi perché lo stravolgimento che una donna prova nel diventare madre a livello fisico e psicologico, lo possono capire in pochi. Non lo capiscono a volte neanche le donne che hanno figli grandi e non si ricordano più cosa vuol dire».
Stesso tenore per il racconto di Elena S. 44 anni, anche lei una figlia di 6 anni e la perdita del lavoro contestualmente a una gravidanza difficile e a un parto prematuro: «La solitudine ha tante forme. Mi sono sentita sola perché le persone care a me vicine non capivano davvero come mi sentivo. Ho iniziato ad avere attacchi di panico, tachicardia, mi svegliavo la notte e non riuscivo a riaddormentarmi. Volevo curare questo dolore. Sono ancora in terapia, abbiamo il diritto ed il dovere di prenderci cura di noi».
Ma che cosa vuol dire sentirsi sola, quando a dirlo è una madre? Dopo le vicende di Roma, si è sollevata sul web una marea corale di racconti di esperienze di parto, che ha trascinato prepotentemente il vissuto privato fuori dalla dimensione personale, occupando lo spazio sociale, il dibattito civile, e mostrando dunque quanto la maternità sia una questione che ha una dimensione politica.
In tutti i racconti di queste madri emergono due aspetti: il vissuto traumatico del parto, anzitutto, la medicalizzazione eccessiva di ogni fase che va dal concepimento alla nascita, i modi in cui alle donne viene negata la capacità decisionale e persino la competenza naturale e fisiologica talvolta, salvo poi scaricare loro tutta la responsabilità una volta che il bimbo è nato: da lì in poi sono affari della madre, che deve essere capace, deve esserlo per forza, perché è una madre e tutte le madri sono capaci. Anche questa è violenza nei confronti delle donne, anche questo ci parla di una società che in ogni ambito si appropria del loro corpo togliendo loro ogni competenza e consapevolezza.
L’assenza degli altri
Dal racconto corale di questi giorni, inoltre, emerge un’assenza straziante. L’assenza dei padri. Non è detto che sia necessariamente perché i padri non avessero niente da dire. Forse, semplicemente, si sono fatti da parte, in un momento in cui le loro mogli e compagne si sono dedicate a esternare i vissuti del parto. Eppure qualcosa non torna.
Matteo Bussola, scrittore e punto di riferimento per le questioni legate alla nuova genitorialità emergente, ha scritto in un post social: «Viviamo immersi in una cultura che continua a escludere sostanzialmente i padri dall’esperienza della gravidanza, da quella del parto e soprattutto dallo svezzamento, come se fossero questioni che non li riguardano affatto». Questo è infatti l’atteggiamento che contribuisce a perpetuare l’idea che la maternità sia un fatto congenito e insito nella donna, sia come desiderio che come competenza. In tal modo si deresponsabilizza qualunque altro soggetto sociale, e in modo fin troppo facile si delega alle donne tutto il carico da gestire, in nome di una presunta predisposizione biologica.
Se tale assunto di natura esistesse realmente, non si spiegherebbero allora tutti i vissuti di paura, incertezza, angoscia e solitudine che raccontano le madri in queste ore. «La solitudine delle mamme inizia già durante il travaglio» racconta Nunzia T. 43 anni. «È una solitudine piena di gente. Una solitudine invisibile. È dentro la tua testa. Tutti ti stanno attorno ma nessuno coglie la tua stanchezza. E tu non alzi la mano e non chiedi per non sentirti inadeguata. Col passare del tempo questa solitudine cambia, te la porti dentro, a tratti la dimentichi, ma resta. E spesso non siamo disposte a chiedere aiuto perché pensiamo che se non siamo capaci c’è qualcosa che non va in noi, che siamo inadeguate. Ma la mamma come qualsiasi professione un po’ si deve imparare».
L’istinto materno esiste?
Curioso che a fronte di tutta questa attitudine materna attribuita alle donne, il vero istinto non sia né riconosciuto né sostenuto. Soprattutto in sala parto.
«Ancora oggi, a distanza di 7 mesi mi viene da piangere se penso alle ‘torture’ subite per non aspettare che la natura faccia il suo corso», scrive Marcella.
«Ho partorito un anno fa o meglio… Mi hanno estratto mia figlia un anno fa… E ancora non riesco a mandare giù la sensazione di impotenza che ho provato in ospedale», scrive Diana.
Troppo spesso, per liberare le donne dal destino fatale della funzione materna, si è negata l’esistenza di un istinto che contribuisce a creare il legame tra i genitori e la prole. Questo sì, fisiologico, anche se non squisitamente femminile: vedere un figlio che sta bene procura una scarica di dopamina che viene percepita come un premio, un piacere intenso e fortemente motivante, accessibile anche ai padri quando creano un forte legame con la prole.
L’istinto materno, che non va affatto confuso col desiderio di maternità che è tutt’altro campo da gioco, è la sacrosanta competenza che si attiva nel cervello dei mammiferi e che va a condizionare tutta l’esperienza del post parto, dal benessere della mamma allo sviluppo emotivo e cognitivo del bambino. Una competenza che trova mille ostacoli, quando condizionata da esperienze estremamente razionalizzate e medicalizzate.
Ascoltare le madri (e i padri)
Sono molteplici le strade aperte, in questo momento. Dopo tutti i racconti delle madri, che sono sempre meno disposte ad accettare la narrazione della maternità come sacrificio tutto a carico loro, e dopo tutte le prese di posizione dei padri, sempre meno disposti a fare la parte di quelli che passeggiano nervosamente in corridoio aspettando l’infermiera, tantomeno le comparse in sala parto, cacciati subito dopo la venuta al mondo di un figlio che hanno atteso per nove mesi.
Si potrebbe partire da qui, ad esempio, per ridisegnare i ruoli e liberarci una volta per tutte dall’idea malsana di maternità come sacrificio, e dalla ancora più insana idea che vede le donne congenitamente devote a questo sacrificio annullante.
Superando questo concetto, saremo forse più disposti a vedere che le donne, tanto quanto gli uomini, hanno ambizioni, aspettative, capacità e che non c’è alcun motivo per cui tutto ciò debba scontrarsi con il desiderio di maternità. Certo, il lavoro va svolto su più fronti. A partire dalle donne stesse, per le quali storicamente la maternità è stata una definizione di identità, quasi un mezzo di riscatto sociale, l’unico veramente loro concesso. Abbandonare l’idea che “la mamma è sempre la mamma” richiede impegno e consapevolezza da parte di tutti. E i primi a beneficiarne, saranno i figli stessi, che potranno avere accanto a sé madri più soddisfatte, più libere, meno sole.
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