È nata prima la diversità o l’inclusione?

È nato prima l’uovo o la gallina?

Mi sono posta una domanda simile anche io crescendo: quando ho iniziato a sentirmi diversa? Chi ha iniziato a farmi sentire diversa? Perché a volte sento il bisogno di sentirmi unica e delle volte vorrei essere così simile agli altri da confondermi nella folla?

Nell’arco della mia vita ho sentito il bisogno di lisciarmi i capelli e contemporaneamente di valorizzare le mie radici miste. Qual è l’origine della diversità e l’inclusione: cosa viene prima?

Nell’attimo in cui veniamo al mondo sentiamo il bisogno di sentirci simili oppure di sentirci diversi?

Sentirsi diversi o inclusi

Per l’uovo e la gallina è più semplice, perché sono entità tangibili. Per la diversità e l’inclusione, invece, definirle è molto più difficile.

Molto in sintesi e andando per estrema semplificazione potremmo definire la diversità come tutte quelle caratteristiche che ci rendono unici e diversi dalla maggioranza. Io ad esempio mi sento unica in molti modi, ma lo sono in particolar modo per quelle caratteristiche che mi distinguono in modo evidente dalle persone che frequento (es. sono una donna in mezzo a tutti uomini, una nera in mezzo a tutti bianchi e così via). E queste caratteristiche, proprio perché diverse dalla maggioranza, portano con sé il rischio di marginalizzazione.

L’inclusione ha invece a che fare con il modo con cui ci sentiamo quando siamo con gli altri. Il ricercatore Mustafa F. Özbilgin dice infatti che se la diversità è uno stato, l’inclusione è un processo. È l’insieme di tutti quegli elementi che ci fanno sentire a casa, ci fanno sentire parte di un gruppo.

Da bambina mi sentivo diversa quando chiedevano a mia madre se fossi adottata. Mi sentivo inclusa quando ero tra le braccia dei miei genitori o giocavo con i miei amici. L’inclusione è uno degli estremi di una battaglia intensa tra forze contrastanti. È tutto un equilibrio tra due poli che non si incontrano mai: il bisogno di unicità e il bisogno di appartenenza.

Unicità e appartenenza

Unicità e appartenenza sono le dimensioni di uno dei miei modelli preferiti. L’“Optimal Distinctiveness Theory”: qual è il livello di distintività ottimale tra sè e gli altri? Le opzioni si muovono lungo 2 assi:

  1. Unicità: il grado con cui le nostre caratteristiche personali sono valorizzate (non discriminate). Tutte quelle volte che ci danno spazio perché siamo particolarmente bravi in qualcosa, oppure ci fanno domande curiose perché rappresentiamo una novità. Quando siamo apprezzati per le nostre opinioni innovative, diverse, divergenti.
  2. Appartenenza: il grado con cui ci sentiamo parte attiva di una comunità e la nostra voce è considerata importante. Quando faremmo di tutto per difendere le persone che fanno parte del nostro gruppo, e quando loro farebbero lo stesso per noi. Quando sentiamo quel calore dentro il cuore perché ci sentiamo a casa. Oppure quando siamo circondati da persone che la pensano come noi.

La regola dell’ODT è questa: più mi sposto verso l’unicità più sono outsider, più mi sposto verso l’appartenenza più mi omologo. Più mi spingo verso entrambe, più troverò il mio livello di distintività ottimale. Ma sono poli opposti che non si attraggono, e per questo l’unicità e l’appartenenza non viaggiano quasi mai insieme.

E quindi cosa viene prima?

Se fosse nata prima la diversità (o l’unicità)

“Da dove vieni?”

“Roma, credo si senta dall’accento!”

“Sì, ma in origine da dove vieni?”

Una delle domande più gettonate da quando sono venuta al mondo. Con la stessa frequenza posta da bianchi italiani (per capire quanto sono diversa) o neri dell’Africa nera (per capire quanto sono simile).

Ora ho una quindicina di risposte diplomatiche o provocatorie, a seconda di quanto mi sta simpatico l’interlocutore. Ma da piccola questa domanda mi confondeva un bel po’.

Se me lo chiedono un motivo ci sarà. E quindi io da dove vengo?

La competizione etnica

Le neuroscienze ci insegnano che ci sono dei meccanismi profondi, quasi animali, che dall’origine della specie ci hanno messo nella condizione di differenziarci. Tendiamo a attivare meccanismi di attacco o fuga di fronte a una minaccia. Nella sfera della minaccia il nostro cervello inserisce la novità, e quindi la diversità. La contrasta, la allontana. La diversità scatena le nostre corde più profonde: paura di perdere i nostri privilegi.

C’è una teoria molto interessante su questo: la competizione etnica. A fronte di una scarsità di risorse tendiamo a massimizzare il profitto di appartenenza a discapito dell’altro gruppo. Quindi non solo favoreggiamo il nostro gruppo, ma ampliamo lo scarto tra il nostro e l’altro gruppo.

E c’è un’altra grande verità: quando si dà spazio alla minoranza si perde potere. Insomma, è pericoloso.

È così che va ad esempio con i migranti: in una fase storica di crisi economica tendiamo a sentire il rischio di perdere privilegi e profitto. Anche se in realtà la crisi dei migranti è, da questa prospettiva, una crisi (per quantità di migranti presenti in italia) a metà. I dati ISTAT di Dicembre 2021 ci dicono che su un totale di 59 milioni di residenti gli stranieri censiti sono 5 milioni (l’8% della popolazione). Il 47% di loro arriva dall’Europa, solo il 22% arriva dall’Africa (quindi neanche il 2% del totale dei residenti in Italia).

Se fosse nata prima l’inclusione (o l’appartenenza) 

Nei miei 15 anni andava di moda la frangetta scalata. Il parrucchiere non voleva farmela perché su di me non avrebbe funzionato ma non c’è stato verso. Insomma, alla fine quella giornata è finita con io che avevo una frangia orribile. Ma mi ero fatta fare la piega. E quindi ero felice perché avevo lo stesso taglio delle mie amiche e perché tutti mi dicevano “come stai bene liscia!”.

Altri studiosi vengono in nostro aiuto quando si parla di inclusione: le scienze sociali. Dal famoso esperimento di Albert Bandura, “Bobo Doll”, emerge che prima dei 2 anni non abbiamo nessun senso di categorizzazione sociale. Non ci sentiamo né maschi né femmine, nè italiani né francesi. A 2 anni arriva l’identità di genere e a 4 l’identità di etnia. Categorizzarci quindi non è un bisogno innato, ma appreso a forza di aspettative sociali, cartoni animati, giocattoli e comportamenti degli adulti.

Diversità o inclusione: pro e contro

A me non è mai piaciuta questa idea che il mio cervello ha deciso da solo cosa è diverso da me e che a 2 anni mi è stata tatuata un’identità di genere. Non mi è mai piaciuta perché vuol dire che allora dobbiamo arrenderci.

Esiste però un margine di scelta, da grandi.

Uno studio svolto nel 2022 da Mida e l’Università Cattolica e che ha coinvolto 50 aziende ha fatto emergere che le strategie di diversità e inclusione, almeno a livello organizzativo, generano impatti importanti.

Opzione 1: Partire dalla diversità per raggiungere l’inclusione

Significa attivare iniziative rivolte innanzitutto al coinvolgimento delle minoranze. Sono i target, le quote, le categorie.

  • Pro: si dà “cittadinanza” a chi non ce l’ha, si assicura un inserimento e una crescita equa.
  • Contro: si categorizza. Si divide ancora di più. Si aumenta la percezione di distanza tra chi è simile e chi è diverso.

“è stata promossa solo perché è donna”

E non meno importante: si trasmette il messaggio per cui c’è un potere forte che concede accesso a un gruppo debole. Insomma: non un rapporto paritario.

Opzione 2: Partire dall’inclusione per valorizzare la diversità

Risponde alla frase “non serve parlare di diversità perché siamo tutti uguali”. In questo caso si includono tutti indistintamente, ogni unicità vale allo stesso modo.

  • Pro: si evita il rischio di strumentalizzazione dalla diversità, i diversi non si sentono più diversi. Il rapporto è più paritario.
  • Contro: ci si dimentica che ci sono dei gruppi che effettivamente hanno meno privilegi e meno opportunità di crescita. Non viene dato spazio a queste persone e non si cambia. Perché in fin dei conti non è vero che siamo tutti uguali.

È successo lo scorso anno anche a XFactor: il noto programma che procaccia artisti emergenti ha eliminato le quattro storiche categorie (under uomini, under donne, over e band) per lasciare spazio alla libertà e non categorizzare. Il risultato? Nel 2021: 26 concorrenti di cui 2 donne. Ha vinto un uomo. Nel 2022: 22 concorrenti di cui 4 donne. Ha vinto un uomo. Quasi tutti sotto i 27 anni.

Non c’è una sola verità, o per meglio dire ce n’è più di una: un mix esplosivo di “da dove vieni?” e “come sono ordinati i tuoi capelli quando sono lisci!”. Il bisogno di sentirci diversi, perché sentendoci diversi ci sentiamo simili a qualcuno. Il bisogno di sentirci simili, perché sentendoci simili ci sentiamo diversi da qualcun altro.

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