Nelufar Heydat, dall’Afghanistan alle serie per Rakuten Tv

In occasione del lancio di Fast Forward, la serie sulla tecnologia che presenta, ho avuto l’opportunità di incontrare Nelufar Hedayat. Nata in Afghanistan, ma cittadina britannica, la giornalista e presentatrice, viene da una famiglia di matematici e ingegneri in cui è l’unica ad aver studiato letteratura. “Sono circondata da persone che comprendono il potere delle STEM. Ho visto il potere della tecnologia (già) nella mia piccola famiglia”. Insomma, un po’ ponte tra culture e campi di studio, Hedayat ha iniziato a lavorare come corrispondente appena 20enne.

Accesa la videocamera della nostra call, mi accoglie un sorriso e un’energia contagiosi che ci accompagneranno per tutta la chiacchierata. È evidente la passione, la curiosità e, allo stesso tempo, la coscienza del suo ruolo nell’industria dei media e come presentatrice di Fast Forward. La serie originale di Rakuten TV (prodotta da VICE Media Group e disponibile qui per lo streaming) esplora strumenti e nuove pratiche che quasi certamente influenzeranno le nostre vite entro breve – dalla carne cresciuta in laboratorio alle protesi bioniche. Partendo da domande su come l’innovazione stia definendo il nostro futuro, abbiamo divagato presto spingendoci verso riflessioni ampie sulle sfide per l’umanità, la rappresentazione e come (se) le voci delle donne e delle minoranze vengono ascoltate.

Cosa ti ispirato a raccontare storie e indagare la tecnologia nel modo fatto nella serie?

Sono nata e ho passato del tempo in una tra le più povere, più svantaggiate nazioni della terra. Poi sono cresciuta e oggi sono un’adulta che paga le tasse in uno dei Paesi più ricchi al mondo. Addirittura, il 6o più ricco! Mi ha sempre incuriosito vedere le differenze e gli estremi. (In un certo modo) questo mi ha incuriosito e portato a lavorare a Fast Forward.

La tecnologia è uno dei pochissimi equalizzatori che abbiamo sul nostro pianeta. Sono stata in Afghanistan, in Libia, in Liberia…luoghi dove le infrastrutture sono talmente limitate che puoi vedere chiaramente la forza trasformativa della tecnologia! Quando cose che ci hanno messo decenni per essere incubate, nutrite per crescere – ad esempio la Rete o l’internet delle cose – arrivano in posti come l’Africa, la mia terra d’origine, le vite dei giovani si trasformano.

Pensando al rapporto tra STEM e donne: quanto è importante normalizzare voci non tipicamente ascoltate – delle donne, di persone di colore, delle minoranze – producendo documentari su settori altamente tecnologici e che sono la frontiera dell’innovazione?

Bisogna correggere il tiro sul modo in cui i media, in particolare, si rapportano alla realtà. E la realtà è questa: donne fenomenali hanno aiutato a portare le navicelle spaziali oltre l’atmosfera. Donne eccezionali hanno aiutato a scoprire il DNA. Donne di enorme talento hanno permesso di curare i tumori o capire come riconoscerli. E la realtà è (anche): dietro a ogni nome – solitamente di uomini bianchi – che vediamo su un giornale, c’è una genialità che non è fatta da una singola persona. Non è un genere, non una identità o una nazionalità. È LA diversità stessa.

Recenti scoperte in tema di Intelligenza Artificiale mostrano come gli stereotipi dei dati possono essere inibitori del progresso. Donne, persone di colore, identità non conformi contribuiscono ben oltre quello per cui gli si dà credito. Viviamo in un’epoca in cui il futuro arriva verso di noi sempre più velocemente. E abbracciare le differenze che ci rendono quello che siamo è veramente importante.

Fast Forward non romanticizza la tecnologia o l’eccellenza umana. Mostra un percorso in avanti difficile ed estenuante. Però abbiamo anche visto come tra la lavorazione della serie e la sua uscita una delle predizioni si è verificata! Oggi gli USA sostengono la fusione nucleare. E questo può rivoluzionare le nostre vite. Permettimi di aggiungere, come giornalista e abitante di questa terra, è molto facile demoralizzarsi. Ma tutti i problemi che ho visto in questo mondo sono problemi…umani. E gli umani sono BRAVISSIMI a risolvere problemi!

È stato difficile trovare voci femminili o “diverse” da far parlare nella serie?

Sì, è stato difficile. Specialmente per l’episodio sulla fusione e in quello sui detriti spaziali. Lo dico a malincuore, perché gli ambiti STEM sono pieni di genio e talento. Puoi essere la persona più preparata al mondo in tema di diversity, ma alla fine… ci portiamo addosso tutti i nostri pregiudizi. Da femminista nata nel sud globale io stessa porto delle lenti. E quando guardo alle cose, magari faccio finta di non vedere, ma in realtà io stessa guardo attraverso quelle lenti, guardo con quei colori.

Per affrontare (efficacemente) questi temi, devono succedere due cose contemporaneamente. Uno: noi donne dobbiamo alzare la più in alto degli uomini che sono nella stessa stanza. E due: chi è in posizione di potere deve guardare attraverso gli occhi della diversità. Altrimenti siamo prigionieri. Una cosa so per certo: non si produce innovazione senza guardare alle cose diversamente. Einstein stesso diceva di immaginarsi seduto su un raggio di luce e pensare come un’altra persona. Parlando con le tante, tantissime persone che ho incontrato, è stato affascinante e importante ascoltare le loro ragioni per aver scelto lavori così difficili. Spesso è perché hanno visto una riflessione della realtà che vorrebbero per noi – una realtà di connessioni, di avanzamento, di pensiero collettivo e collaborazione. La serie si interessa di tecnologia. Io penso di aver contribuito e renderla una serie…umana.

Pensi che abbiamo bisogno di più intenzionalità? Non solo garantire il tempo adatto (sui media), alle donne per esempio, ma il rispetto per il loro lavoro e il loro talento?

Il mondo in cui viviamo oggi è molto diverso da quello in cui sono cresciuta io. Ed è fantastico! Il problema è che il cambiamento climatico continua; continuano le privazioni dei diritti, la sfiducia nelle istituzioni. Non abbiamo un pianeta B. Per questo dobbiamo parlare ai giovani, lavorare per queste voci e provare a trasmettere quello che il futuro porterà.

Ero alla COP l’anno scorso a Edimburgo. Si vedeva la rovina, la tristezza e lo sconforto che i politici ci hanno imposto. Mettiamo in loro tutta la nostra speranza, ma vediamo in loro tutti i nostri fallimenti. Quindi quando qualcosa va bene, non per forza li applaudiamo. Diciamo: avete fatto il vostro lavoro. Succede lo stesso con la comunità scientifica. Siamo appena usciti da una pandemia globale. Abbiamo visto cosa i miliardari possono fare quando decidono che lo spazio è la loro prossima frontiera. Abbiamo capito le conseguenze del cambiamento climatico. È importante che i giovani guardino a questo con sguardo scettico?

C’è un senso di ottimismo o entusiasmo che si può trasmettere?

Insegnare ai bambini l’ottimismo mi sembra distopico. L’ottimismo si guadagna. Se dici: non preoccuparti, andrà tutto bene! Quando però la casa dietro di te è in fiamme, non stai risolvendo il problema. Questo è ciò che le generazioni precedenti hanno fatto alle generazioni di oggi. È un travaso di informazioni, potere e ricchezza.
Secondo i dati, per la prima volta nella storia dell’umanità, i più giovani erediteranno meno e peggio delle generazioni che li hanno preceduti. Da Millennial, mi sento una vittima di questo crimine. E lo dico sinceramente.

In passato avevamo bisogno di un Einstein, di una Marie Curie. Avevamo bisogno di questi (geni). Oggi ogni scienziato che lavora su un progetto è uno di questi individui spettacolari, perché possono lavorare in team. I giovani hanno il vantaggio di sapere che non devono essere geniali isolati. Nè immaginarsi da soli in un laboratorio e a guardare le stelle. Fast Forward non è una serie che insegna alle persone ad avere speranza. Diciamo che se non facciamo nulla, queste sono le conseguenze. Ma possiamo fare qualcosa.

Non è un messaggio di speranza. È un messaggio di emancipazione: facciamo qualcosa!

Come riusciamo, come parte del mondo dei media, a raggiungere chi è fuori dalla “bolla” e passare il messaggio?

Sì siamo in una bolla, ma è una falsa bolla. È più uno specchio. Stiamo tenendo uno specchio in mano e guardiamo indietro dicendo: “crescita, crescita crescita! Prosperità! Più cose, più velocemente!” Guardiamo indietro in questo specchietto retrovisore al nostro passato. Ma tutte le novità avverranno nel presente. Assicurandoci di avere una occhio sulla strada di fronte e uno al volante, possiamo guidare questa macchina in avanti. E farlo in una maniera che è rivelatrice e interessante.

L’umanità è pronta a salvarsi? Non lo so. Ma la serie guarda ai problemi e ai modi in cui possiamo affrontarli. Per esempio (come approfondito nell’episodio sulla spazzatura spaziale, ndr) basta il movimento di un proiettile a causare la devastazione del GPS mondiale, dei nostri sistemi di navigazione, dei satelliti… e può succedere adesso. O adesso. O proprio adesso! La questione è: conoscendo i rischi, come ne mitighiamo gli effetti?

C’è un momento della tua vita in cui hai realizzato che raccontare era quello che volevi fare e diventare?

Avevo 15 anni circa e guardavo la guerra nel paese in cui sono nata, l’Afghanistan. Guardavo le news in farsi, la lingua che parlo, e in inglese. E ho pensato: qualcosa non va. La traduzione è sbagliata. Mi sono resa conto che la pratica del giornalismo non è solo raccontare eventi, ma la tua visione della storia. Il racconto inglese e americano e quello afgano erano totalmente differenti. Ho realizzato che la cosa più importante che potessi fare era mescolarli. Fare che mettessero in discussione le loro posizioni. Fare in modo che si vedessero l’uno con l’altro.

Ho studiato giornalismo e a 19 o 20 anni ho iniziato facendo documentari sull’Afghanistan per la BBC. È stato allora che ho realizzato di non dover essere uno scienziato per provare a fare domande interessanti sulla scienza. Nè un esperto militare – e sono stata corrispondente di guerra per quattro anni viaggiando tra Libia, Bahrein, Turchia e ai confini della Siria. Sono sinceramente affascinata dal modo in cui la società ha deciso che una identità permette o esclude dall’essere in grado di parlare di certi argomenti. Ma questo non è sano ed è sbagliato!

La mia posizione è sempre: se un uomo alto bianco che non è mai stato in Afghanistan vuole parlare da competente sull’Afghanistan, beh, interverrò nella conversazione e cercherò di parlare con un senso di curiosità, non autorità. Quindi a 15 anni vedendo diversi raccontare diverse versioni dello stesso evento ho realizzato che non c’è una verità. Ci sono solo “storie”. E ho voluto iniziare a raccontarle (anche io).

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