Milano, stanza singola in affitto: 870 euro. Nella fotografia si vede un letto, più che altro un materasso poggiato su una rete, una piccola scrivania e una sedia. E’ una di quelle sedie svedesi su cui puoi stare seduto più di un’ora solo se hai 20 anni, e comunque quell’ora te la ricorderai benissimo a 40.
Posto letto in stanza doppia: 650 euro. Stesso setting, ma qui c’è un armadio anni cinquanta, non è modernariato, la casa probabilmente è stata ereditata dalla nonna, e non ci speculi un po’ sopra con gli studenti?
Sono solo 2 annunci totalmente casuali fra i tanti che si trovano online, ma non si allontanano molto dalla realtà quotidiana con cui si scontrano gli studenti in cerca di una sistemazione abitativa. Forse anche per questo l’Italia ha il numero più alto in Europa, il 68%, di studenti universitari che abitano con i genitori; solo il 5% ha un alloggio pubblico o privato classificato come studentesco, contro una media europea del 17%, (rapporto Eurostudent).
I contributi pubblici non aiutano gli studenti
Il Pnrr ha previsto investimenti per 960 milioni di euro per la creazione di 60mila nuovi posti letto per studenti entro il 2026. Ma che succede se gli operatori che prendono in carico la residenzialità studentesca sono privati?
A Bologna Camplus è il principale operatore privato di residenzialità studentesca, prima con i fondi statali per l’edilizia residenziale pubblica, poi con quelli stanziati a partire dal 2000 per aumentare il numero di posti letto per studenti universitari.
“A fronte dei contributi pubblici non c’è alcun controllo sui canoni. Una stanza in un collegio di merito Camplus a Bologna costa fino a 1.300 euro al mese. Una stanza in una delle altre quattro residenze semplici di Camplus in città costa tra i 750 e i mille euro al mese. Sono cifre che la maggior parte degli studenti non può pagare”. Lo racconta Sarah Gainsforth, ricercatrice indipendente e giornalista freelance, autrice di diverse pubblicazioni tra cui l’ultima, “Abitare stanca”, edita da effequ, è un reportage sulla situazione abitativa attuale nelle grandi città italiane.
“Le politiche abitative sono nate per rispondere a un fabbisogno molto chiaro” prosegue Gainsforth: “all’inizio del Novecento la popolazione delle città aumentava per via dell’afflusso dei lavoratori dalle campagne, la costruzione di case non teneva il passo con l’aumento demografico perché lo sviluppo edilizio era governato dall’iniziativa privata. È stato quando il pubblico ha capito che doveva intervenire, che si è iniziato a rispondere alle necessità della classe operaia. Il problema oggi è che il 41% delle case costruite in un’epoca di crescita demografica e famiglie numerose, è da destinare a nuclei con più di quattro componenti. In Italia le politiche, le analisi e i rilevamenti statistici ruotano attorno alla dimensione della famiglia, in una società composta da una moltitudine di soggetti che nulla hanno a che fare con la struttura della famiglia tradizionale“.
E se a cercare casa non è uno studente?
E qui giungiamo al secondo nocciolo del problema. Il problema dell’assenza (o meglio: dell’inaccessibilità) delle abitazioni, non riguarda solo gli studenti universitari. In una recente intervista, il deputato AVS Aboubakar Soumahoro, parlando di partite Iva e piccole e medie imprese, ha dichiarato: “Qualcuno dirà: ‘Ma cosa c’entrano con la classe operaia?’. Proprio questa visione arretrata, ferma, statica non permette di entrare in contatto con la realtà che cambia”.
La realtà che cambia, è quella di una generazione di persone spesso plurilaureate che si barcamenano con redditi irrisori. Partite Iva per le quali è stato creato il regime forfettario, introdotto nel 2015, per sgravare le imposte su professionisti che possono trovarsi a fatturare anche meno di quindicimila l’anno. Anche molto meno. La realtà che cambia, è quella di una generazione cresciuta con il mito della proprietà come punto di arrivo di un percorso disegnato dalle politiche neoliberali, talvolta sfrontate, che hanno smantellato paradossalmente proprio tutte le tutele che hanno permesso alle generazioni precedenti di diventare proprietari di case.
“La casa è stata il principale veicolo di diffusione dell’ideologia neoliberale. Il modello proprietario è quello che ha ricevuto più investimenti pubblici, basti pensare agli ultimi introdotti dopo la crisi pandemica: Eco bonus, Bonus facciate, le agevolazioni per i mutui sottoscritti dagli under 35. Per gli investimenti privati ci sono sempre fondi pubblici, più che per il welfare. Che i privati facciano mercato privato con i fondi di garanzie pubbliche è inammissibile” osserva Gainsforth.
Il social housing
“La creazione di posti letto gestiti dai privati, con regimi fiscali agevolati come quelli per il social housing, la possibilità di affittare sia a studenti che a turisti, garantiscono ai privati un investimento sicuro e protetto dal pubblico, ma non l’accesso agli studenti o ai lavoratori a basso reddito. Il problema riguarda una fascia di popolazione che non può accedere né alla proprietà né all’affitto, perché il mondo immobiliare è rimasto fossilizzato alla richiesta di una serie di garanzie che non tengono conto di come è cambiato il mondo del lavoro dagli anni Novanta, garanzie che questa fascia non può dare, per come il precariato ha impattato sui loro redditi e sulla capacità di risparmio. La casa diventa così uno strumento di disuguaglianza, accentua i divari” spiega Gainsforth.
L’impatto di tutto questo, in termini di costi generazionali, lo stiamo solo intuendo. Sta dietro al tema del calo demografico, anzitutto, assieme a molte altre buone ragioni che vanno cercate nel welfare. Sta dietro al disastro annunciato pensionistico, perchè se è vero che oggi i trenta-quarantenni contano molto (loro malgrado) sui vari aiuti che possono ricevere dai genitori in pensione, è altresì vero che loro invece quella pensione probabilmente non la vedranno mai, ed è spaventoso notare quanto stia diventando grande questo elefante rosa nella stanza.
E l’impatto psicologico?
Da una parte c’è il fatto che l’idea di proprietà e di casa viene associata all’idea stessa di dignità e di orgoglio, la proprietà è uno strumento di competizione nella società della performance, e accanto a quelli “che ce l’hanno fatta” (molto spesso con l’aiuto di eredità e risparmi delle generazioni precedenti), c’è un esercito di adulti che sperimenta una frustrazione e un fallimento in cui non sembra esserci nessuna speranza di riscatto.
“La casa è un requisito di base per stare al mondo nel contesto occidentale. Una casa è il minimo indispensabile per migliorarsi, fare scelte, progettare il futuro. Ci viene sempre presentata come fosse un punto di arrivo, in realtà è un punto di partenza. Privare fasce intere di popolazione di questo punto di partenza, vuol dire togliere loro la terra sotto i piedi, questo fa la precarietà abitativa. Un sistema in cui il costo della casa condiziona tutto il resto è una trappola. Una cultura, una civiltà non può fiorire se non ha energia per fare altro che sopravvivere” commenta Gainsforth.
La responsabilità per un cambio di rotta è nell’intermediazione del pubblico, secondo la ricercatrice: “Quel pubblico che è stato delegittimato, di cui si è depotenziato l’apparato amministrativo, che ha tagliato i fondi per le politiche abitative, le ha smantellate. Oggi quel pubblico va ricostruito, non bastano i sussidi, che funzionano ma hanno tempi lentissimi, non basta il social housing, se poi i fondi pubblici sono gestiti da attori privati che nei bandi fissano limiti di reddito a 90mila l’anno, non può essere questo il target del social housing, è una contraddizione in termini. Per questo occorre ripotenziare la macchina organizzativa pubblica. Adesso i fondi ci sono, quello che forse manca è la cultura e la volontà politica”.
“Abitare stanca”
Nel suo libro, Gainsforth, oltre alla bibliografia che ci si aspetta di trovare in un saggio, costella i suoi ragionamenti di citazioni di amici, che chiama per nome. Un gesto politico, perché ci ricorda con prepotenza che il tema della precarietà abitativa non è un fatto astratto che riguarda una classe sociale indefinita, è una morsa che si stringe attorno a persone, storie, famiglie.
Penso ai miei amici che con un bambino in età da scuola vivono in un bilocale di 35 metri quadri. Penso a quell’amico che a 43 anni vive in condivisione, in una stanza singola, e resta in città solo per poter stare vicino alla mamma anziana e sola, altrimenti se ne andrebbe. Penso a quella collega che mi ha raccontato che il suo reddito è troppo basso per i bandi delle cooperative e troppo alto per le case popolari. Alla parola mutuo, mi ha raccontato di come in banca l’abbiano trattata con gentile sussiego, facendola sentire una bambina.
Chi sta cercando casa in questo momento, in affitto manco a dirlo, si scontra con un mercato di proprietari che non si fida di chi ha avuto difficoltà economiche legate al blocco delle attività, rifiutano inquilini in cassa integrazione, chiedono contratti a tempo indeterminato e non vogliono sentir parlare di libera professione.
Quello della casa, dunque, è un problema che a macchia d’olio si è espanso dalle fasce tradizionalmente ritenute povere, ed è andato a includere quel limbo di redditualità precaria a cui ci si ostina a guardare quando si parla di futuro e natalità. Da tempo sentiamo parlare di scivolamento della classe media nella povertà. Viene da chiedere, oggi, quale sia il reddito che consideriamo “classe media”, se forse questa classe media non sia già estinta. E quanto in basso ancora debbano scivolare i trenta-quarantenni prima che la politica cominci a prendere sul serio l’elefante rosa nella stanza.
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Titolo: “Abitare staca”
Autrice: Sarah Gainsforth
Editore: effequ 2022
Prezzo: 18€
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