Quiet quitting: fare lo stretto indispensabile a lavoro tutela il benessere psicologico?

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Trend di quest’anno su Tik Tok, il quiet quitting è un fenomeno che si sta diffondendo tra le giovani generazioni in risposta all’ormai vecchio mito dello stakanovismo. Con il neologismo nato proprio sui social, si intende infatti l’idea di disimpegnarsi dal proprio lavoro, finendo per fare lo stretto indispensabile. Un abbandono silenzioso dove non trovano più spazio dedizione, reperibilità costante, reattività nelle urgenze. Al loro posto, un tempo ritrovato da dedicare ad amici, famiglia e attività personali.

La scelta alla base è quella di dissociarsi dal mito della performance a tutti i costi, nonché da quella che in America viene chiamata “hustle culture”, ossia la cultura che insegna che bisogna ambire a sempre di più. Secondo il report “State of the global workplace 2022” di Gallup, in Europa solo il 14% dei dipendenti è davvero coinvolto nella propria attività lavorativa. Un dato che fa riflettere su quanto spesso manchi un punto di incontro tra progetti di vita e aspirazioni delle persone, da una parte, e percorso di carriera dall’altra. Sempre la ricerca evidenzia inoltre come il 39% del campione sperimenti vissuti di stress giornalieri, mettendo in luce un malessere psicologico diffuso.

In uno scenario di questo tipo, il quiet quitting sembra una risposta più che logica. Eppure, siamo davvero convinti e convinte che fare lo stretto necessario tuteli il proprio benessere psicologico e – in ultimo – renda più felici? Lungi dal voler dare una risposta universalmente valida a questa domanda, voglio tuttavia riflettere sulle cause e le conseguenze del fenomeno. Citando il filosofo Emil Cioran, infatti, ha convinzioni solo chi non ha approfondito niente. Motivo per cui, voglio pormi – e porre – alcune domande.

Qualche anno fa era diventato popolare sui social un meme che recitava: fare schifo è un gesto rivoluzionario. E se lo fosse diventato fare il minimo indispensabile?
E se invece uscire dal meccanismo della prestazione finalizzata a risultati sempre più alti, fosse un grido d’aiuto?

Ancora.
Se il proprio benessere psicologico – come nel caso di un fenomeno per certi versi simile come quello delle Grandi Dimissioni – non venisse più immolato in favore di una sicurezza economica? Se la propria felicità fosse totalmente svincolata dal proprio lavoro? E se invece non lo fosse? Se si cambia prospettiva, infatti, le domande si modificano diametralmente. Come è normale che sia. Diventano: se disimpegnarsi dal lavoro, alla lunga, conducesse a sfinimento, noia e perdita di senso? E quindi a infelicità?

E se invece – terza opzione – il disimpegno caratterizzante il quiet quitting fosse un sintomo diffuso di burnout? Dopo tutto, tra i campanelli d’allarme di quest’ultimo ci sono proprio distacco mentale, cinismo nei confronti del lavoro e sentimenti di esaurimento. Una causalità? Forse. O forse no. Quello che è certo, è che per comprendere il fenomeno del quiet quitting – come nel caso di qualsiasi altro evento – è necessario sospendere le proprie risposte. E cominciare a dedicarsi alle domande. Farle a sé – in quanto persone, manager, aziende – e, soprattutto, farle ai diretti interessati, ossia a chi, già oggi, si sta silenziosamente ritirando.

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