I bambini in Ucraina hanno diritto di tornare a giocare

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Il 28 maggio la Giunta Comunale di Milano ha istituito la ‘giornata del gioco’ con tanti appuntamenti per celebrare la settimana dei diritti dei bambini e degli adolescenti.

Il Comune ha accolto la richiesta dei ragazzi e delle ragazze del municipio 8, che hanno voluto dare voce all’articolo 31 della convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e adolescenza, che tutela il diritto al gioco. Sono due i commi dell’articolo 31 che lo sanciscono:

  • Gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica.
  • Gli Stati parti rispettano e favoriscono il diritto del fanciullo di partecipare pienamente alla vita culturale e artistica e incoraggiano l’organizzazione, in condizioni di uguaglianza, di mezzi appropriati di divertimento e di attività ricreative, artistiche e culturali.

Viene naturale pensare a chi in questo momento non può godere di questo sacrosanto diritto: ragazzi e bambini che vivono ormai da mesi la guerra in Ucraina nel loro Paese o da rifugiati in paesi ospitanti.

A loro ‘Save the children’ il 12 maggio ha lanciato un messaggio firmato da alcuni ragazzi rifugiati, vittime di altre guerre in Syria, Myanmar e Sudan: “BELIEVE IN YOURSELF, PLAY SPORT, DRAW“. Fatima, Ghaith e Daniele (sono nomi di fantasia) hanno condiviso la loro esperienza di rifugiati ma anche il percorso che li ha portati all’uscita dal trauma: ci sono passati, sanno bene cosa significa vivere sotto bombe e colpi di artiglieria o dover abbandonare la quotidianità da un giorno con l’altro.

Sono 450 milioni, secondo le stime di Save the Children i bambini che vivono in aree colpite da conflitti. L’impatto sulla salute fisica e mentale è devastante: bambini insonni, costantemente terrorizzati che non vogliono abbandonare i rifugi sotterranei/antiaerei.
Ghaith è per esempio fuggito dalla Syria nel 2013: ha visto cose da cui un bambino dovrebbe essere protetto, come la brutale uccisione dello zio e di quattro cugini. Ora partecipa al programma di Save the Children ‘coaching for life’ nel campo rifugiati di Zaatari in Giordania, dove grazie al calcio è stato in grado di verbalizzare e metabolizzare le sue emozioni e migliorare il suo stato psico-fisico. I ragazzi ucraini hanno bisogno secondo lui di “supporto, educazione e di vedere prospettive migliori. Praticare degli sport e tutto quanto possa aiutarli a dimenticare il loro passato e credere in un futuro migliore”.

Il direttore di Save the Children Ucraina Pete Walsh ha dichiarato: “Le storie di questi ragazzi sono un modo potente per ricordare l’impatto devastante che i conflitti hanno sulle vite dei bambini, non solo in Ucraina ma in tutto il mondo. Ognuno di loro ha condiviso la propria esperienza per dare ai bambini ucraini speranza. Loro stessi hanno infatti vissuto l’orrore della guerra”.

‘Credi in te stesso, gioca, fai uno sport, disegna’! un invito che ragazzi e bambini ora vittime quotidiane del conflitto in Ucraina, dovrebbero poter mettere in pratica, per godere di quel diritto sancito dall’Onu. Lo sport, il gioco sono come un vocabolario che può aiutare durante tragedie come questo conflitto. Lo sport infatti è un modo di comunicare universale: passarsi una palla è una forma di dialogo, fare gol è un punto esclamativo, vincere una gara e vedere la gioia dei compagni è la risposta a tante domande. Chi è costretto a vestire i panni del rifugiato vive spesso quello che si definisce shock culturale: un senso di completo disorientamento in un ambiente socio-culturale differente e talvolta senza poter comunicare. Giocare unisce e aiuta a superare questa barriera della cultura ignota.

Khalida Popal con la sua storia ne è esempio vivente. Ha creato la nazionale di calcio femminile afgana, scappata da Kabul continua da rifugiata a lottare per i diritti delle donne. Qualche mese fa ha fatto arrivare in Inghilterra 130 calciatrici, che, giunte nel Regno Unito, hanno continuato a tirare calci al pallone: un oggetto che creava quella continuità che sa di normalità. A soli 12 anni, Klaudio Ndoja, cestista, ha attraversato il mar Adriatico alla volta di Brindisi per scappare insieme alla sua famiglia dall’Albania travolta ne 1998 dalla guerra civile. Il gioco del basket è stato l’inizio di una nuova vita e la fine di un incubo. Qualche giorno fa Alley Oop ha raccontato la storia degli atleti ucraini che sono stati accolti nel veronese, dove hanno potuto continuare ad allenarsi e quindi tenere alto l’umore e la speranza di una vita da adolescenti normali.

Gli esempi sarebbero tanti. Il gioco non è solo un diritto, è una necessità, probabilmente scritta nei geni di ognuno di noi: da adulti preoccupiamoci di continuare a garantire il gioco ai nostri bambini e ragazzi.

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